Silenzio. L’aria fresca della sera autunnale. Mio padre è qui accanto in una postura marmorea, una piccola brezza di sabbia e calore portata dal deserto rantola in un mulinello nella strada. Ha le mani sui fianchi, le braccia forti e muscolose sfoggiate senza esitazione, il petto erculeo, i capelli corti, castani con la riga da una parte. Lo sguardo fiero si posa sui tetti del Cairo. Il viso squadrato, militaresco, gli occhi marroni del leone della savana.
Di poco supero con la testa il corrimano del balcone. Non sono per niente intimorito, mi sento protetto e felice. Gli occhi mi brillano e mi tremano.
La sua mano si scosta e mi accarezza la testa. Mi sento onorato. Mi stringe a sé all’altezza del costato. Serro le palpebre come in un sogno; un calore m’invade il collo si unisce a quello del suo corpo. Apro gli occhi e le luci delle case cairote sono risucchiate nella mia pupilla. Il sogno è realtà.
“Ma perché vuoi andare? È una pazzia! Ormai la nostra terra è l’Egitto, qui è la nostra casa”. Non avevo mai visto mia madre in quel modo. Dietro il velo nascondeva più di una treccia di capelli. Ricordo poco dell’infanzia: una pelle di miele soffice come la seta. Lei che si asciugava le gambe mentre una corda di fili neri sottilissimi, bagnati, le scivolava attorcigliata dalla nuca alla schiena.
Una donna fiera come suo marito. Seducente come una fanciulla dai mille segreti dell’harem ma capace di penetrarti con la durezza del suo sguardo. Molti uomini, amici o colleghi di mio padre ne hanno saggiato la lingua sottile. Erano i tempi delle guerre del ’67 e del Kippur. Erano i tempi in cui le donne facevano anche politica. I tempi di Nasser e Sadat.
Una donna inginocchiata avvolta nel suo sari arabo a pregare e svuotare il suo mare salato, per piegare un uomo destinato alla morte. Era il 1980. La guerra in Libano era da poco scoppiata. I miei occhi sono ancora posati sulla bacinella d’olio.
A volte mi domando come sarebbe stato mio padre. Come si sarebbe incurvato sull’asse degli anni, magari sarebbe rimasto un uomo fiero con il mento alto e il portamento di un gentleman inglese. Chi può dirlo? Forse poteva diventare un tipo mite che avrebbe coccolato i nipotini con lo sguardo magnanimo di chi ne sa fin troppo sulla vita. Chissà. Magari si sarebbe sentito solo e abbandonato, lì in cucina con la moglie a sorbirsi rumorosamente l’ennesimo brodo bevendo thè alla menta. Io preferisco immaginarlo su una sedia di legno e iuta sul balcone intento a osservare un paesaggio ogni notte diverso in compagnia di mia madre, ricordando i vecchi tempi come migliori del presente; io arrivo con mia moglie e i bambini che sguizzano dentro correndo appena la porta si apre, inseguendo un anziano canuto.
Sono ritornato qualche volta in quella casa d’infanzia. Entrambi i miei genitori sono andati via per ricongiungersi con il profeta. Ora c’è un’altra famiglia che vive lì. La cordialità e l’ospitalità delle genti arabe non conosce limiti. Ho spiegato il motivo del mio apparire così, dal nulla. Per fortuna hanno capito, non ho avuto bisogno di smuovere le conoscenze di Ismail. Mi hanno lasciato solo sul balcone richiudendo la porta della camera.
Ho le mani sui fianchi, la pupilla si muove lentamente. La magia è scomparsa. Il panorama è lo stesso ma gli occhi sono di qualcun altro, c’è solo l’ombra riflessa di quel bambino sulla mia mano. Gli edifici sono stati incoronati con dischi di metallo, il frastuono dei clacson delle strade affollate arriva fin quassù, le case a pianterreno seguono il disordine dei tempi … è tutto più sbiadito, forse la polvere del deserto è entrata in profondità nelle facciate delle case.
Sfilo la mano dalla tasca. Le lancette segnano le nove. Un aereo per Londra mi attende a mezzanotte. Ripercorro il corridoio una volta famigliare. L’attuale famiglia mi saluta con reverenza, salutano l’immagine dei miei incubi.
La prima volta che feci sesso fu con una straniera. Per quanto si fantasticava sulle donne non avevo la più pallida idea di quello che si doveva fare. Ho sempre creduto che le donne fossero più avvantaggiate dei maschi. Le madri spiegano tutto per filo e per segno quello che si deve fare, come ci si deve comportare, svelando trucchi e trappole. Invece i padri danno tutto per scontato: buttati nella mischia e fatti le ossa! L’unico rischio è essere sbranati e scomparire. Non sono stato sbranato, ma non so più dove sono. La testa oblunga in una goccia di un derivato del petrolio.
“Forza Yussef. Ce la puoi fare”. È entusiasta. “Vediamo, il pedale sulla sinistra cos’è?”.
“La frizione”, rispondo senza esitare.
“Bravo figliolo. E quello al centro?”, continua lui.
“Il freno, e l’altro l’acceleratore”, mi affretto ad aggiungere anticipando la sua nuova domanda; aspetto un suo assenso, certo che sarà orgoglioso di me.
“Sei intelligente, figlio. Spero che ne sappia far buon uso”.
Era contento sebbene un velo opaco gli si stendesse sugli occhi, come a trasportarlo in un altro tempo; forse l’iride stava scorrendo nell’ipotetica vita di suo figlio. In quel momento ci rimasi male, ma in futuro avrei capito quell’inflessione dello sguardo. L’istante andò via.
“E questa a cosa serve?”, continua la lezione ritornando in sè per vedere se ho afferrato tutti i concetti.
“È la marcia e serve per mettere in movimento la macchina”. Deglutisco. I miei occhi emanano gioia come se stessi venerando un dio. “Questa è la prima”, la inserisco spingendo bene la frizione, “la seconda”, arretro l’asta della marcia dritta giù, perpendicolare alla prima. Tiro con tutta la forza verso di me per evitare d’inserire la quarta pensando che si faccia sempre così. In un futuro sarà un gesto naturale che non richiederà tutte queste attenzioni: un prolungamento del mio arto destro. Sento le braccia pesanti. Seguendo con la stessa concentrazione inserisco tutte e quattro le marce con un sorriso da primo della classe. Mi passo l’avambraccio sulla fronte.
“Bravo figliolo. Adesso vediamo se sai guidare. Non credere che sarà lo stesso facile!”.
Non posso crederci! Eureka! Mio padre mi permette di portare la macchina. Mi sento onorato di tanta responsabilità. Ho un caldo pazzesco. Mette la macchina sulla strada e io mi risiedo al posto di guida. Ismail seduto nel mezzo del sedile posteriore.
Giro la chiave. Il motore si avvia. Dallo specchietto retrovisore vedo la sua pupilla rimpicciolirsi fino quasi a scomparire. Con un cenno della testa mio padre annuisce. Spingo il pedale della frizione, appoggio il palmo della mano sul pomello della marcia che ora sembra una palla da calcio, lo tiro a me. Fisso la strada davanti. Mando giù il mallopo di saliva. Inserisco la prima e sento un gracchiare come se dentro il cofano ci fossero mille vespe.
“Spingi più a fondo la frizione”, mi dice calmo mio padre. Seguo le sue istruzioni e la prima per fortuna entra. Avverto ogni singolo muscolo della gamba sinistra assumere una vita propria. Non so quanto tempo passa ma sembra un’eternità. A motore spento è un’altra cosa. Per una frazione di secondo riesco a guardare lo specchietto. Ismail ha un misto di terrore e apprensione dipinto sul volto, è una delle rare immagini dell’infanzia che ricorderò per tutta la vita.
Avverto la voce calma di mio padre. “Lascia lentamente la frizione e dai un pò di gas. Non aver paura, se sei cosciente di quello che fai non succederà nulla e tutto filerà liscio come l’olio”. L’auto balbetta e singhiozza sulla strada.
“Uhaaa. Aiuto”, singhiozza Ismail.
“Zitto tu là dietro!”, gli intima autoritario mio padre. Dopo solo il rumore del motore. “Ora spingi la frizione e inserisci la seconda. Togli e rimetti il gas”. Entrambi abbiamo lo sguardo sulla strada, non riesco a vederlo ma avverto la sua concentrazione pulsare nelle mie tempie. Seguo quanto mi ha detto. La macchina inciampa ma non si spegne. Ho il cuore in gola. Le braccia pesanti e dure come fossero marmo. La fronte imperlata di goccioline. Una indipendente la sento scivolare vicino all’orecchio. L’auto procede mentre un’altra avanza lentamente verso di noi.
“Vedi quel parcheggio sulla destra Yussef?”.
“S-si, si”, credo di rispondere.
“Infilati dentro e frena piano piano fino a fermare la macchina senza toccare l’altra parcheggiata. Ricordati di spingere la frizione per evitare di far spegnere il motore”, la sua voce mantiene sempre quel tono rilassato che mi trasmette sicurezza. Ancora non sono cosciente di quanto mi mancherà. Credo di vedere Ismail con gli occhi strabuzzanti verso l’auto che procede verso di noi. Il 128 si ferma sgommando con le ruote anteriori sull’asfalto sabbioso. Il motore singhiozza e poi si spenge. Le spalle si rilassano. Con il viso sudato guardo esausto mio padre.
“Bravo figliolo. Sono fiero di te”, mi dice serio e orgoglioso. Sento la carne del corpo spingere sulla pelle. “Ora andate a casa, tua madre ti sta aspettando”. Non dico nulla. Apro lo sportello e scappo via nel vialetto di casa. Mi sembra di aver guidato per chilometri e chilometri. Non sento il suolo sotto i miei piedi. Il Muezzin intona la voce per la preghiera del tardo pomeriggio. Un brivido percorre la pelle. Quella cantilena ha il fascino di raggiungere un punto indescrivibile dell’animo.