Appoggio le valigie per terra. Sono pesanti e mi spezzano il fiato. Il Conselleur del consolato francese mi ha suggerito di recarmi con largo anticipo per evitare di perdere l’aereo, quando gli ho sborsato 50000 pound per ammorbidirgli il polso. Penso ai molti cairoti che guadagnano dai 400 ai 600 pound al mese.
Ho accompagnato un’infinità di persone all’aeroporto. Era il mio lavoro. Il tabellone delle partenze e degli arrivi, i desk che corrono come un serpente lungo il corridoio, l’odore stantio di pelle umana e pavimenti sporchi, il via vai schizzofrenico delle persone e dei poliziotti militareschi dal viso impenetrabile, mi fanno capire che questo giorno era scritto da qualche parte nel mio DNA. Mi stupisco di come abbia sempre saputo che sarei volato via e di come inconsciamente scacciavo quel pensiero. Una specie di crampo mi afferra lo stomaco ma passa così come è venuto. Forse è la certezza del presente che inganna il passato, la coscienza di un tuffo verso l’ignoto, verso un viso ad attendermi.
Il tabellone dei voli cambia nuovamente emettendo un rumore che mi ricorda lo stantuffo dei treni, i tasselli girano come in una roulette mentre l’occhio cerca di comporne le parole. In quel movimento roteante di numeri e lettere, un palpito dell’animo spera che la pallina si fermi sul proprio numero. Desk 36.
Seguo a menadito le istruzioni che mi vengono impartite dalle varie hostess. Ostento una falsa sicurezza, è la prima volta che viaggio fuori l’Egitto da solo. Mostro con orgoglio il passaporto con il timbro del consolato francese. Sono uno dei fortunati destinati ad altri orizzonti, non rimarò a marcire in questa fogna di città. La hostess al check-in mi osserva in un modo che intendo complice.
Da una vetrata della sala d’attesa vedo uno scorcio delle piste d’atterraggio e della città. Gli edifici in fondo devono essere Masr el Gedida. Penso alla sera prima, quando ho consegnato le chiavi del taxi a Ismail.
“Trattamelo bene, lo sai quanto ci sia affezionato”, so di mascherare l’amara verità che probabilmente non l’avrei più rivisto. Quante volte abbiamo infilato le nostre mani tra i meccanismi del motore? Nei segreti della camera a scoppio? Nel pistone da rettificare? Nei grovigli di fili elettrici? Ogni volta è tornato a ruggire.
Ci guardiamo negli occhi, forse entrambi ripensiamo a quando lo guidai per la prima volta prima di trasformarlo in taxi, alle mani impastate d’olio e grasso. Ci abbracciamo. Nessuno dei due sa se mai ci rincontreremo e se sì, chissà a chi sarebbero appartenuti quei nuovi visi. “Non ti preoccupare. Lo tratterò come se fosse mia sorella!”.
“Hai intenzione di lavorarci? La licenza di tassista è nel cassetto”, spero che il mio amico lo faccia. L’idea di Ismail al volante del taxi mi dà la sensazione che una parte di me non sarà mai partita.
“Non lo so ancora. Ho il lavoro giù al negozio di mio padre. Certo mio fratello minore sta crescendo ed è ora che si trovi un lavoro. Lo sai meglio di me che nella mia famiglia non ci sono possibilità di terminare gli studi”. Per un breve istante si assenta. Si rivede sui banchi di scuola tra matite, squadre, righe, chine; voleva fare l’architetto. Già si vedeva con un blocknotes, elmetto giallo tra calce, pozzolana, cisterne di cemento, effettuare sopralluoghi sui cantieri. Gli do una pacca sulla spalla.
“Ad essere sincero preferisco che sia tu a guidarlo. Manda tuo fratello al negozio e tu al volante. Gira per il centro e cerca di caricare turisti: pagano due o tre volte di più e loro comunque fanno un affare! Se ti fai amico di qualcuno alla reception dell’Hilton o dello Sheraton ti assicurano una buona quantità di lavoro. Tu sei un uomo onesto e loro cercano proprio questo”. Ismail mi guarda dal basso verso l’alto con le sopracciglia inarcate come se stesse ricevendo un colpo, mentre gli cingo il collo in modo canzonatorio. “Mi accompagni tu all’aeroporto?”
“Ma prendi un taxi no? Non capisco perché devi scomodare gli amici!”. Ci fissiamo circondati dal perenne rumore del traffico, poi scoppiamo a ridere.
“In qualche modo dovrai pur incominciare il nuovo lavoro”. Andiamo a brindare con un coshari shay con foglie di menta fresca.
Questa mattina sulla strada verso l’aeroporto ho portato il taxi forse per l’ultima volta. Siamo passati davanti a dei cantieri edili. Un ingegnere con un elmetto giallo si consultava con quello che doveva essere il direttore dei lavori indicando le costruzioni. Non ci siamo detti nulla. Ho alzato il volume dello stereo. La voce di Um-Kalthum irrompeva da un tempo in cui i padri credevano in qualcosa, costruivano un Egitto per tutti. C’era speranza di un nuovo inizio: gli inglesi erano andati via, Nasser costruiva la diga di Assuan con i finanziamenti sovietici, le case crescevano in ogni angolo, la gente aveva un sorriso fatto di speranza. L’immagine militaresca di mio padre mi è parsa lontana, appartenente a un’altra persona.
“Lascia che ti aiuti a portare le valigie dentro”.
“No, ci penso da solo”.
“Ma sono pesantissime”, insiste Ismail.
“Da qui in poi è di mia competenza”. Lo dico in tono perentorio e senza possibilità di risposta. Qui c’è una linea che solo io posso varcare, come per proteggerlo da un pericolo. Ci abbracciamo e baciamo tre volte alla maniera egiziana come se ci fossimo rincontrati dopo molto tempo.
“Chissà come saremo?”, mi domanda Ismail. Non replico. La mia ombra si perde oltre le porte scorrevoli di vetro.
Quanti aerei sulle piste, atterrano e prendono il volo in una sequenza interminabile. Solo adesso mi rendo conto di non averli mai visti da così vicino, ho sempre dovuto alzare il collo per vedere librarli nel cielo. Incredibile.
Il volto di Samya mi sobbalza alla mente dal niente. La poltrona della sala d’aspetto dove sono seduto diventa scomoda. Provo a collocarmi meglio ma è come se ci fosse qualcosa che mi dà fastidio. Controllo ma non c’è niente.
La donna delle pulizie dell’appartamento al secondo piano nel palazzo di fronte. Con una precisione straordinaria stende le coperte senza lasciare una riga obliqua, perfettamente allineate. Porta un velo rosa con ricami bordeaux, una maglietta dello stesso colore e un giacchetto leggero. Noto il suo petto formoso e all’apparenza sodo, i reggiseni a volte ingannano, mi dico. La gonna grigio marrone lunga fino ai piedi. Potrebbe essere una falsa magra come una falsa grassa. Indefinibile e accattivante. I fianchi sono larghi ma non eccessivi, le gambe si snodano sulla gonna attillata. Una sensazione di calore si diffonde sul petto quasi all’altezza della gola. Ha gli occhi scuri, larghi. Il viso asciutto con un naso affilato e tagliente, carnagione chiara. Non so perché ma ho la sensazione che mi abbia scorto, è veloce e furtiva, ma possiede delicatezza e portamento nei suoi modi di fare.
Mi immagino i suoi muscoli nell’attimo in cui tende la mano per afferrare qualcosa, la pelle giovane e fresca che si tira. Il braccio che si allunga di nuovo e lascia cadere i seni nel vuoto, i lineamenti delle cosce che premono quando si accuccia, e lo stretto ventre forma una goccia di miele .
La vedo entrare nell’appartamento con i piedi scalzi muovendosi con disinvoltura come se fosse la padrona di casa. Sicuramente è sola e gioca con la fantasia. Intravedo la caviglia sottile e parte del polpaccio sodo ma fine. La pianta si posa delicatamente in un camminare dritto. Per un momento la vedo nuda, conosco il suo corpo. Un formicolio torpido corre sull’inguine.
Apro la porta. Lei è come l’ho vista da dietro la finestra.
Perché mi appari ora Samya? Oscillo la testa come a scacciare la tua immagine. Ma in fondo lo so il motivo. Quando percorsi la pelle del tuo corpo con la lingua amavo il tuo sapore. Ho immaginato di vivere una vita egiziana con te. Avrei potuto amarti, lo so. Ma tu eri sposata anche se questo non contava quando ti penetrai. In quell’istante ci siamo amati per qualche strana alchimia, concessi l’uno all’altra.