Non so cosa ci faccia in questo posto dove mi hanno portato. Abbiamo attraversato a piedi l’Opera House sull’isola di Gezira, forse sarà per il tasso alcolico un pò alto o per i fumi della marjuana, fatto sta che tra questi palazzi illuminati, la musica classica degli altoparlanti esterni, l’edificio dedicato interamente all’esposizione permanente di arte contemporanea e il museo della musica, mi sento una nullità. Svuotato e frustrato, come annientato di fronte a tanta arte, meno di un granello di sabbia nel deserto. Mi sento rimpicciolire, la vita non vale niente e una strana sensazione mi coglie improvvisamente: l’idea di star perdendo tempo. Gli altri ragazzi schiamazzano e importunano le ragazze e i passanti. Non mi sono mai vergognato tanto di me stesso. Vorrei intervenire, ma mi sento così privo di forza e allora vorrei rimpicciolire ancora di più, quasi a sparire. È qualche mese che li frequento.
Seduto a uno dei tavoli dell’Hanger Theatre insieme agli altri avvolto nel mio silenzio. Mi alzo di scatto con le gambe leggermente tremolanti. Per un attimo si azzittiscono tutti.
“Ma che fai? Siediti”, dice uno di loro.
“Dai siediti, fra poco ti passa”, mi incalza un altro appoggiandomi la mano sulla spalla e tirandomi giù sulla sedia. Il corpo mi s’irrigidisce.
“Non provare a dirmi quello che devo fare!”, tuona la mia voce. “E togli la tua sporca mano dalla mia spalla”.
“Calma amico! Datti una calmata. Siamo qui per divertirci, okay?”. Non ho voglia di continuare a dare spettacolo più di quanto non abbiamo già fatto. Così m’incammino verso il giardino del bar. Con la coda dell’occhio noto uno spicchio di un’altra sala nascosta dietro un corto corridoio. S’intravvedono dei quadri appesi alle pareti. Incuriosito mi avvicino lentamente, quasi a chiedere il permesso Il ragazzo all’ingresso mi incita incoraggiandomi dicendomi che è ad ingresso libero. Non che mi importi pagare qualche spicciolo, però il modo di fare invitante del ragazzo mi sprona definitivamente.
I quadri mi catturano. Mostrano villaggi di qualche zona sconosciuta dell’Egitto, di posti di cui ho solo sentito parlare; alcuni mi rammentano l’oasi di Al Fayum dove sono stato da piccolo con i genitori, uno dei pochi ricordi insieme; altri credo che siano le case di fango di Siwa, l’oasi sperduta nel mezzo del deserto tra l’Egitto e la Libia. Le pennellate dei volti e paesaggi calmano il senso di irrequietezza interiore. Mi sento partecipe e protagonista di quei colori, un’altra persona, non il tassista decadente e svuotato che ho incontrato nello specchio questa mattina.
“Ehi Yussef! Vieni che ce ne andiamo!”. È uno dei ragazzi. Non gli presto attenzione.
Quando esco dalla sala della mostra è passata forse un’ora e sono contento di non vederli ancora nei paraggi.
Mi siedo di nuovo ad uno dei tavoli e ordino un thè egiziano. Ho bisogno di qualcosa di forte e genuino. Avverto la sensazione di volermi ripulire.
Non l’ho notata prima. Forse è venuta da poco. Distrattamente e con un movimento svogliato della testa mi è apparsa dal nulla. Sono i capelli biondi, curati che ondeggiano delicatamente ad accompagnare il volto che mi colpiscono? Rimango pietrificato. La osservo per alcuni secondi per poi rispecchiarmi nella superficie del thè di fronte a me.
È indaffarata a conversare con un uomo senza volto, pieno di scartoffie e parole. Presta attenzione, sembra interessata al discorso dell’altro, ogni tanto dice qualcosa ma riesco a leggere dietro lo specchio dell’iride: è disillusa e turbata. È bella, il viso delicato a forma di oliva, gli zigomi leggermente accentuati con il trucco che evidenzia le parti più affascinanti della sua bellezza. Un leggero velo di rossetto si stende su labbra carnose ma non sfrontate, gli occhi azzurri, grandi, allungati. Ha il naso aquilino, forse un pò troppo ma le dona. Le orecchie piccole, assomigliano a quelle di un bambino … abbasso lo sguardo rapidamente. Si guarda in giro. Sì, si sente osservata. Devo essere più cauto. Ora anche l’uomo si guarda intorno con il viso turbato. Lei gli rivolge un sorriso di facciata.
Non è la bellezza che mi colpisce. Se metto a fuoco ogni piccola parte del viso, so che ci sono ragazze più belle. È qualcos’altro che mi rapisce e mi cattura, un non so che di misterioso, di nascosto. Forse è quel modo di fare distaccato, un’illusione di disinteresse. Invece ascolta, sostiene lo sguardo dell’interlocutore, lo liquida con un movimento impercettibile del capo, con un sussulto delle labbra. L’uomo rimane spiazzato. Capisce che c’è qualcosa che non va ma non sa che ora i suoi discorsi si perdono dietro le spalle di lei.
Lei continua a guardarsi intorno. Pattuglia l’ambiente con occhio vigile. Mi nascondo sempre più difficilmente. L’uomo davanti a lei chiude le sue cose in una valigetta di pelle nera con fare indispettito. Osserva confuso tra gli sguardi dei clienti. Le si rivolge con fare brusco girando i tacchi e piantandola in asso. Lei prende la tazza del thè e lo porta alle labbra. Ne beve un piccolo sorso, quel tanto che basta per farle muovere la trachea. Con fare pacato la posa sul piattino. Sembra seguire un percorso tutto suo.
Appare sollevata, alleggerita dall’ingombrante presenza di ossa, carne e sudore di un volto di ombra. I clienti sono tornati ai loro discorsi e alle loro bevande, il brusio ha ripreso il suo corso. Ora sono in trappola.
Le ciglia di donna hanno scovato gli occhi di spia. Le iridi s’incontrano con pause più brevi. Lei si sistema i capelli lungo il viso. Io mi alzo. Mi sta fissando senza distogliere lo sguardo.
“Posso sedermi?”. Annuisce. Sono contento che i fumi dell’alcool e della marijuana siano svaniti. Sono contento di non avere maschere.
Rimaniamo seduti per un tempo incalcolabile. Possono essere trascorsi diversi minuti come ore. Lei apre la borsetta e ne estrae un’agenda dove incomincia a buttare giù appunti. Lavoro? Mah! Può essere che stia scrivendo una storia, o solo gli eventi appena svoltisi, oppure un libro, sicuramente non sono scarabocchi; vedo benissimo la calligrafia annerire le righe. Sono solo spettatore inconsapevole, un personaggio partorito da un trovarsi per caso in mezzo alla strada. Smetto di fantasticare.
“Cameriere! Mi porti un altro thè, senza zucchero grazie. Bevi qualcosa?”. Ho un tono basso e il capo lievemente sporto in avanti. Scuote impercettibilmente la testa senza distogliere l’attenzione dalla scrittura. La lascio proseguire. Sorseggio l’acqua color ambra centellinandola, ad ogni sorso ingoio parti di lei. L’impegno verso quell’inchiostro e la brama degli occhi che sembra aver colto un attimo inafferrabile, una fiamma strana brucia nelle sue pupille. Il braccio e la mano si muovevano schizzofreniche per poi fermarsi di colpo. Si morde il labbro inferiore destro e arriccia il naso. Di getto cancella e riprende a scrivere.
“Allora?”, chiude l’agenda. Ha una copertina con un disegno a rombo, formato a sua volta da piccoli quadrati di vari colori. Il retro foderato in nero. “Come ti chiami?”.
“Yussef …”
“Bravo Yussef. Sei stato molto paziente”, prosegue senza lasciarmi continuare. “È una dote o un trucco che usi con tutte le donne?”, ha un tono canzonatorio. Sbrigativo.
“Mi è piaciuto molto osservarti. Eri come posseduta da una forza esterna. Affascinante. Il tuo viso e tutto il corpo erano qui e subito dopo da qualche altra parte”.
“E bravo. Vedo che sei un tipo che va subito al punto! Già parliamo di corpo!”, reclina leggermente la testa indietro abbozzando una striscia ironica sulla bocca. Non sono nè il primo nè l’ultimo uomo che ha scansato facilmente. È stanca di conversazioni inutili e vuole tagliar corto senza risultare scortese … a meno che non sia necessario. Però sono convinto che ci sia qualcosa in me che le fa abbassare la guardia, le miei parole devono averla in parte colpita. Forse il tono neutro della voce, senza inflessioni nè lusinghe. Sì, è curiosa.
“C’è stato subito in te qualcosa che ha richiamato la mia attenzione.Sono stato attratto da un interesse che va oltre la bellezza. Un quid che mi attrae e mi sfugge …”.
“Il corpo appunto!”, la maschera si sta alzando! Un velo protettivo da parole che colpiscono nel fondo, parole che possono essere pericolose se credute. Un velo inefficace, ne è consapevole. “Che fai nella vita Yussef?”. Non ha altra scelta che cambiare discorso. Le guance le si sono arrossate leggermente. Si guarda intorno come alla ricerca di un appiglio.
“Faccio il tassista. Ho aspettato fino ad ora per incontrare una francese, innamorarmi perdutamente, sognare di sposarla, avere figli, amarla per tutta la vita … le cose classiche da lieto fine da film americano”. Di rimando una sottile striscia ironica si forma sulle sue labbra. Entrambi non sappiamo quanto siamo vicini alla realtà.
“Come hai fatto a capire che sono francese? Il mio arabo è impeccabile e senza accento. Avrai tirato ad indovinare ed hai avuto fortuna”. È contrariata.
“Ti andrebbe una passeggiata?”, propongo.
“Che ne dici di dare un’occhiata alla mostra nella sala adiacente?”, contropropone lei. Sa benissimo che ci sono stato poco prima e forse anche lei c’è già stata.
“Volentieri. La rivedo con molto piacere insieme a te”. Un calore d’imbarazzo si diffonde sul collo. “Non ti ho ancora chiesto il tuo nome, è molto scortese da parte mia”.
“Vedi che sei interessato solo al corpo!”.
Un momento di silenzio. Poi entrambi ridiamo guardandoci di sottecchi. Il calore è scomparso.
“Volo EGY3549 per Parigi partirà tra trenta minuti. I passeggeri sono pregati di dirigersi al Gate 13”. Un sogno francese mi si apre sul volto.