Apro la porta per riporre il sacchetto dell’immondizia nel secchio che lascio volutamente fuori dall’appartamento per evitare odori sgradevoli. Un attimo un brivido percorre la pelle, il respiro si fa pesante e rimbomba nei timpani. Una figura con il burka nero egiziano si disegna nell’oscurità del pianerottolo. Sento le tempie premere forte. Sgrano gli occhi incredulo, infatti l’ombra scompare nell’ombra.
Sono ancora in sobbuglio. È risaputo che è difficile per un uomo essere seguito da una donna.. Mettiamoci che mi trovo in un paese musulmano. Aggiungiamo che lei indossava il burka. Stordito e disorientato.
Una striscia poco sotto le sopracciglia, una striscia della larghezza di un dito, lungo uno e mezzo. Lì in quel fazzoletto di pelle devi interpretare una persona. Ipnotizzato dall’iride verde oro da gatto del deserto. Non vedo altro che i suoi occhi, gli occhi misteriosi nascosti nel nero. Che fare? Cosa dire? Che comportamento tenere?
“Pssh, pssh …”, mi volto e vedo una donna con il velo nero a coprirle tutto il corpo e solo gli occhi per vedere. Non le bado, forse sta chiamando qualcun altro. Posso avere a che fare con un numero imprecisato di persone, ma non ricordo di essere stato introdotto a una donna musulmana ortodossa. Niente in contrario, ma come ho detto, non ho avuto mai il piacere di conoscerne una. Ripenso alla giornata di oggi. Iniziata su un tram con un’altra donna con il velo nero, lei aveva il viso scoperto e l’abigliamento occidentale, occhi grandi, neri; ciglia allungate con il rimmel, labbra carnose e provocanti, pelle liscia, aspetto curato con un atteggiamento distaccato. Ripenso a Marysa, la signora francese di circa sessant’anni che ho incontrato alla stazione dei treni, alle ragazze sul metro che scherzavano su di me ma che mi dirimo nel farci caso o darle spago, non ho la mia solita confidenza, in questa terra bisogna portare rispetto anche se non ne condivido l’idea: proteggere il sesso debole e per l’occorrenza ovattarlo fino a non farlo respirare; poi penso alle mie origini e di quante tragedie si snocciolano dentro le mura di casa. È un tacito accordo di muta convivenza e di quieto vivere. Le donne sono terreno pericoloso.
Ha degli occhi stupendi. Nel mio poco arabo capisco che mi domanda come mi chiamo, io aggiungo che sono italiano. Silenzio. Di qualcosa, non lasciarla andare via. Lei mi precede. Sì, vivo qui vicino; le mordo l’indirizzo a metà perché il resto non lo ricordo. “Hai fatto compere?”, capisco dall’indice che punta le borse. Sì, dello yougurt e una radio. Per ascoltare l’arabo, continuo. Non voglio perdere l’incatesimo. Passanti. Ci teniamo a debita distanza, solo gli occhi comunicano una voglia di comunicare. Sento l’imbarazzo percorrere la spina dorsale. Un calore avvolge le spalle. Furtivamente li osservo per capire come a loro volta guardino. Sembrano a posto, un po’ stupiti di vedere uno straniero con una donna ortodossa. Vorrei dirgli di quanto lo sia io. Immediatamente vengo catturato nuovamente dai suoi occhi che sembrano giocare con me. Arrivano dei cani randagi, si avvicinano, lei sembra terrorizzata. Kelb, cane! Prove di idioma nel momento sbagliato, ma che posso farci se neanche lei parla inglese? Parole mozzate e gesti. Vedo il suo corpo muoversi sotto la sagoma del burka. Fa un certo effetto vedere un essere umano in un cilindro di tessuto muoversi come il re nella scacchiera. Scaccio i cani. Le si appoggia al muro.
Marysa mi da tutti i suoi contatti ad Assuan e a Luxor. È un po’ come me tra 30 anni, of course al femminile. Mi racconta dei suoi viaggi in Cina, in Sud Africa (“ma solo dopo la fine dell’Apartheid, sia chiaro!”), delle notti sul Nilo su una feluca di un amico. Del primo viaggio fuori da sola: il Cairo e l’Egitto. Da allora ogni anno deve trascorrere un mese qui. È come una droga, una parte di lei della quale non si può staccare. Me la immagino giovane, bella, magra, nuda su quella feluca con un bell’uomo nubiano dell’Alto Egitto.
“Che cosa ti porta qua?”, si ricorda di domandarmi. Deve esserci sempre un perché sebbene a volte ancora non lo si è trovato.
“Scrivo. Sto cercando di scrivere il mio primo romanzo”.
Parliamo dell’Egitto. Lei domani parte per il Sud, non ne può più del Cairo. Troppo caotico. Stress, confusione, clacson, aouto, grida di fruttivendoli, di venditori di bombole, spazzini, gatti che miagolano … non c’è strada che ne sia immune.
“Quando vedrai l’Alto Egitto, al Cairo ti sembrerà di non volerci tornare! La gente dell’Alto Egitto è ospitale e cordiale con il sorriso sulle labbra”. Io le racconto delle mie escursioni nelle terre di nessuno, nei quartieri poveri di questa città, nell’enorme cimitero fatto di vivi e morti, di percorsi proibiti dalla paura dell’animo. I volti, le case; pareti diroccate e pericolanti sorrette per chissà quale alchimia; i profumi di pane fresco che mettono in sobbuglio lo stomaco e i tanfi dei motori e immondizia che fanno altrettanto; i bambini vestiti di cenci e sporchi di fango o fuliggine felici di rispondere a un mio sorriso; del thè bevuto al lato di un mausoleo fatto tomba in compagnia di foto in bianco e nero di guerre lontane, di volti scomparsi, di un volto ora intagliato dagli anni … tutto questo scorre sui miei occhi, i peli degli avambracci si rizzano, l’adrenalina scorre sulla mandibola e sulle guance, nell’incavo dell’occhio dove quasi avverto l’emozione sormontarmi in acqua.
Lei sa di vedere un Cairo nascosto attraverso me.
“Pssh, pssh”, la mano inguantata di velluto mi fa un cenno. Mi guardo intorno. Non c’è nessuno. Mi fermo. Lei dall’altra parte del muretto che fa angolo, io l’ho girato solo da qualche metro. Immobile, lei si avvicina. Vorrei muovere le gambe ma sono terribilmente pesanti. “Aywa. Yes”.
“Ismak eh?”, come mi chiamo?
“Vincenzo, ana itali”. Sono italiano. Non posso credere ai miei occhi: non ho mai parlato ad una ragazza araba che non fosse stata sposata, o madre di qualche amico, o per chiedere informazioni. Mi rendo subito conto del rischio che sta correndo, con il senno del poi adesso mi dico che il velo la protegge, d’altronde chi può riconoscerla? Certo, ha atteso il momento propizio. Mi rendo conto di averla vista poco prima quando procedevo in direzione opposta a casa per andare a comprare la radio. Come sempre per una frazione di secondo devo averle guardato gli occhi immaginandomi il mondo dietro il velo. Mi ha seguito! L’avevo capito anche prima, ma ora qui a casa la sua tenacia si materializza, assume un corpo fuori dal suo. Ha ascoltato i miei salamalecco alla gente, la mia conversazione in inglese arabo con il mio fruttivendolo. Magari si è fermata a guardare una vetrina poco prima del negozio. Deve essere stato proprio così perché procedendo verso casa e in mezzo al traffico non l’ho vista. Che cosa stava pensando in quel momento? Che cosa stava macchinando il suo cervello? Stava già progettando il suo inseguimento? Per potermi parlare in un luogo poco trafficato? Che cosa le interessava veramente di me? Mi sono sentito onorato, quando sono tornato a casa mi sono guardato allo specchio. A dire la verità non mi è apparso un Vincenzo così irresistibile. Quindi è per il fatto di essere straniero mi dico.
“Sono sicura che ti troverai bene qui in Egitto”, Marysa mi guarda con gli occhi di chi la sa lunga. Tra le nostre feritoie ci siamo capiti. È come parlare la stessa lingua: tra viaggiatori non ci sono le solite comuni barriere, è una strada comune dove ogni tanto ci s’incontra e spesso ci si lascia. Ma non c’è mai rammarico perché la vita è fatta di coincidenze e di incroci fortuiti. Anche l’amore non è fatto allo stesso modo?
Le confido che qui al Cairo mi manca quella confidenza con le donne. Non che voglia tramutarmi in Don Giovanni. “Il mondo femminile mi affascina. È un universo misterioso nel quale mi piace affondare”.
“30 anni fa non era così. Allora le donne non portavano tanto il velo. Erano in poche”. Tempi di femminismo, mi dico tra me. “Quelle che un volta lo mettevano ora portano il burka e le altre lo indossano giornalmente. Ma è una moda”.
Io le espongo la mia teoria. Cioè che ci stiamo incamminando verso un moto reazionario che segue i cicli della storia, o della teoria hegeliana. Dopo moti di profondo progresso o rivoluzioni esiste simpre una restaurazione. Le elenco il 1789 e il 1815: Parigi, Vienna! Aggrotta la fronte e fa un cenno con la testa a se stessa.
Ridiamo allegramente per una mia battuta, lei si rilassa ancora di più. Ha il corpo completamente abbandonato sul muretto. La osservo nei lunghi spezzoni di silenzo. Vedo che indossa dei pantaloni da uomo verde acqua marina, le scarpe di cuoio bianco con un leggero tacco, ha un carattere forte. Intravedo una borsetta sotto il braccio sinistro nascosta sotto il velo. Sono ancora catturato dal magnetismo del suo sguardo, però riesco a vedere anche il resto. Non ha rughe intorno agli occhi, ne tantomeno ai lati, deve essere giovane, lo si capisce dal brillo della pupilla. La sua voglia di vivere pulsa in quella piccola scintilla.
Anche lei mi studia. Mi chiede se sono sposato indicandomi l’anello. Le dico di si, lo sono. Lei rimane. Mi attendevo una sua sortita in qualche modo. Il telefono squilla. È Chiara. Rispondo.
“Bibi Bana. È il nome del mio amico ad Assuan, Bana è il nome della madre. Mi raccomando, non domandargli della madre morta altrimenti diventa un fiume in piena”. Marysa mi racconta del suo bagno nel Nilo nell’Alto Egitto, mi da tutti i numeri telefonici per contattarlo. Mi dice che se gli vado a genio, e lei è certa di si, mi porta nel villaggio nativo naibiano dove si può anche alloggiare … ma è meglio in hotel, niente di commerciale, buon prezzo e buon cibo: 20 euro per una doppia. Penso a Lucia e in tutti i posti in cui vorrei portarla.
Quando Marysa se ni va mi dirigo allo sportello per chiedere informazioni sugli orari dei treni. È veramente una strana coincidenza: perché sono venuto in questa stazione? Anche lei aveva dimenticato i soldi a casa (sì perché accettano solo dollari o euro per le cuccette di prima classe) ed è dovuta tornare in stazione. Se non avesse avuto quel lapsus non ci saremo incontrati.
Mando un SMS a Lucia. Con la mente pregusto il mio viaggio solitario con tutti gli egiziani su un treno normale, immagini di me che domino l’arabo, immagini di un’altra vita. Il rumore delle onde sarà sempre lo stesso, il mio viso solcato , striato dagli intagli del tempo.
Sotto la lunga veste nera sembra avere un corpo massiccio. Non mi lascio ingannare dalle apparenze. Smusso gli angoli e le spigolature di un probabile giubotto sottostante la tunica. Effettivamente potrebbe essere un abbigliamento da suora. La postura di poco prima con i piedi incrociati rivela molto più del nudo occhio: deve essere una ragazza slanciata e magra. Il resto è solo una maschera. La mia curiosità s’infittisce, così il silenzio tra di noi. Ancora preso da quell’effervescenza di conoscere di più vorrei fare mille domande, ma come? Le domando se lavora. Sembra di no. Studia? L’università?. No, sembra che non l’abbia fatta. Sei sposato? Sì. Le dico che sono più vecchio di quello che posso sembrare. “No, no, no”, mi fa eco lei.
“Ana omri teleta wi teletin”. 33. lei avvicina il pollice e l’indice guantati di nero e mi dice “Suwayya”. Un poco o piccolo. Ecco perché prima abbiamo riso di tutto gusto. Una gig di due comici del muto. Solo ora mi accorgo che ha una bella voce sebbene attutita dal velo. Che cosa rappresento io per lei? Lo scrittore nascosto è entrato in azione. Un diversivo per parlare con qualcuno? Perché con gli altri non potrebbe? Non sarebbe ben visto? Non le è permesso? Come può essere un mondo di solitudine forzata? Come passa il tempo dietro il velo? È come Alice nel Paese delle Meraviglie? Come farle tutte queste domande? Ho anche il timore di spaventarla, di aggredirla con la mia curiosità occidentale, una cavia della mia curiosità, ciò potrebbe essere più offensivo della mentalità dei suoi connazionali o di chi l’ha messa in quella cintura di castità. Mi muovo come il leone segue il fruscio del vento per mimetizzarsi con la natura. Lascio le parole al silenzio. Mi vede occhidentale e quindi ancòra di salvezza al suo mondo vestito di nero, ad una vita stabilita, ad un marito scritto? Che ci fa lei del Marocco qui? In uno slancio di compulsivo altruismo la prenderei in sposa domani per liberarla da tali catene. Ma cosa posso darle? Una vita senza velo? Quali sono le catene? Potrebbe abituarsi ad un mondo fatto di lavoro, vita sociale, gelosia, corpi, lussuria … dove il mistero del velo scompare e la quotidianità non è poi così diversa da una marito arabo. No, senza confini geografici lei ha saputo leggere dietro il velo dei miei occhi. Lei ha visto oltre i segni del tempo.