Circa un mese fa sono passato in redazione per parlare con Roberto Silvestri, il direttore di Alias al quale faccio riferimento. Non sono un giornalista, scrivo free lance da circa un anno per loro, come tanti altri al giornale vedo i soldi quando ci sono, e non tutti, ma non fa niente, sono importanti, ma in qualche modo riesco a tirare avanti la carretta.
Come al solito sono andato al secondo piano, agli archivi. Lì c’è Bruna, che mi dà le copie dove sono usciti i miei pezzi, in cartaceo nel caso riuscissi a prendere il patentino da pubblicista (ho i miei dubbi), oltre che in formato PDF, da “appiccicare” sul mio blog. Lei era preoccupata per quello che poteva accadere al giornale, il fallimento non la spaventava, anche se ritrovarsi in mezzo a una strada non fa piacere a nessuno, era preoccupata di tutto l’archivio storico de Il Manifesto. Che fine avrebbe fatto? Che fine farà se il giornale fallisce? Forse nell’inceneritore di Acerra o nel reciclaggio per la carta. Quante storie si perderanno? Non solo quelle che non verranno più scritte, ma anche quella delle varie persone e giornalisti che hanno contribuito a fondare e portare avanti Il Manifesto, di quello che ha significato in tutti questi anni.
A maggio giugno 2011 ci sono stati i referendum per mantenere l’acqua di uso pubblico, per non essere privatizzata, perché costituisce un bene comune. Anche la libera informazione costituisce un bene comune, libera e non assoggettata a regole di interesse propriamente economico o di partito. Ovviamente Il Manifesto ha un taglio di sinistra, ma anche scontri e punti di vista opposti spesso sono stati lasciati aperti dentro il giornale. Questa è la particolarità della testata: non rinchiudersi in posizioni estreme, ma lasciare libero il dibattito, a volte provocando, ma sempre nello spirito costruttivo.
Mentre scrivo osservo Daniel che sporvera il mobile davanti a me, fuori il cielo stranamente plumbeo de Il Cairo e i tetti fatti di dischi satellitari. Daniel è eritreo, lavora per George, l’amico americano che mi ospita, io ormai lo chiamo “Occupy George house” perché è un anno che ormai sono qua! Daniel sa poco di quello che accade nel mondo, spesso mi domanda cosa penso della situazione in Egitto, come è l’Italia, l’Europa, l’America … a volte lo vedo perplesso quando trova che le mie risposte “alternative” non coincidono con l’idea che lui ha dell’immaginario fuori da Il Cairo e l’Eritrea. Lui è rifugiato politico in Egitto, vorrebbe andare in Occidente, “dove tutto è possibile”. Quando le nostre discussioni finiscono, non mi dice mai “hai ragione” (per fortuna!), ma rimane pensieroso;, la sua mente rimurgina e si fa domande, sviluppa un pensiero diverso, non per questo uguale al mio, ma sicuramente più ampio. Questo è un po’ lo scopo che ha Il Manifesto, creare un’alternativa che non sia dentro i soliti canali mainstream, non per essere “dovutamente” contrario, ma per allargare i punti di vista sugli eventi della storia e della quotidianeità che ci circondano.
Per questo mi aggiungo all’appello corale fatto dalla direttrice de Il Manifesto che ho postato questa mattina su FB (http://www.ilmanifesto.it/attualita/notizie/mricN/6440/), mettendo in risalto che è possibile fare l’abbonamento web che viene a costare €130, per 6 giorni a settimana significa 41 centesimi a copia …
altrimenti annuale a 4 copie alal settimana per €170 (significa prezzo alla copia 83 centesimi di €), con la consegna direttamente a casa per chi vive in Italia.
Anche se siamo in tempi di crisi magari c’è un piccolo posto per l’approfondimento giornalistico culturale.
Un caro abbraccio a tutti.
Ciao
Vincenzo