
PDF ALIAS: Ibrahim El Batout: la rivoluzione non è finita
Uno dei pochi registi egiziani che ha affrontato la rivoluzione è stato Ibrahim el Batout, anche se lui asserisce il contrario: “Non volevo fare un film sulla rivoluzione, ma volevo che la rivoluzione fosse un elemento nel film”. Il taglio che ha voluto dare al suo ultimo film, “The winter of discontent”, è parzialmente storico, e narra visivamente i 18 giorni che hanno preceduto la caduta di Mubarak dell’11 febbraio 2011. Attraverso la storia dei protagonisti, Ibrahim ricostruisce parte delle motivazioni che hanno portato alle sommosse a Il Cairo e in tutto l’Egitto, e mostra cosa significava vivere sotto il regime di Mubarak, quali vessazioni e umiliazioni dovevano subire gli egiziani da parte della polizia segreta.
La bravura del regista, sta nel guardare la rivoluzione da diverse angolazioni, dentro e fuori il regime, di chi usufruiva dei vantaggi nell’essere parte di un sistema e di chi, la maggioranza, era emarginato, estromesso da qualsiasi beneficio (sociale, lavorativo, sanitario …). Ibrahim sapientemente riesce a descrivere questi due mondi separati da una cortina di ferro dove la polizia segreta la faceva da padrone. Così si assiste a scene di pura tensione, in cui la tortura fisica e psicologica sminuiscono l’individuo, ne annientano la personalità. È il caso dello Sheik Mido, la storia vera di un egiziano filopalestinese, rinchiuso in una stanza costretto a bere acqua in continuazione, obbligato a non andare al bagno, fino a ritrovarsi i pantaloni completamente bagnati. Il suo imbarazzo e la sua umiliazione quando Salah, l’esperto aguzzino capo dei servizi segreti, gli dice con noncuranza di tornarsene a casa, di dimenticare la Palestina. Oppure il caso del protagonista maschile del film, Amr che, rientrando in Egitto dalla Bosnia dove lavorava come inviato, viene sequestrato e incappucciato dai Servizi Segreti, e sottoposto a pratiche di tortura di ogni genere. Emblematica è la scena in cui il protagonista bendato, viene fatto sedere su una comoda poltrona di pelle dell’ufficio di Salah, viene consolato dal boia che, con oliata esperienza, intimorisce la vittima con ogni piccolo particolare: lo stridulo della sedia trascinata lentamente, il rumore della fiamma dell’accendino, della sigaretta quando viene spenta nel portacenere, dell’espirare il fumo della sigaretta che il carnefice fa fumare al prigioniero, come un patto tra vittima e carnefice.

È da questi piccoli dettagli che si nota la sapienza filmica del regista e la maturità raggiunta nel saper soppesare le scene, in modo da dare allo spettatore la suspense e l’idea chiara di ciò che si srotola sulla celluloide. Come quando rende palpabile l’assoggettamento psicologico della moglie di Salah, intimorita si azzittisce dietro il muro di silenzio del un capo dei servizi segreti che sembra portarsi dentro le mura domestiche la sua visione poliziesca della vita. Il modo di guardarlo, di sottomettersi agli sguardi di lui. Sono movimenti impercettibili, una posata appoggiata sul tavolo della cucina, il movimento delle palpebre … è un tributo alle violenze domestiche e psicologiche di cui le donne sono vittime.
La costruzione del film e lo svolgimento della trama è molto più solida che negli altri film precedenti (Hawi ed Ain Shams). Lavorare con una casa di produzione in parte ha consolidato le capacità di El Batout di proporre film di alto spessore, che trattano dei problemi sociali e delle ragioni che esistono dietro una rivoluzione … “Ha significato molto avere una produzione alle spalle, per la prima volta nella mia carriera di regista ho potuto veramente concentrarmi sulle riprese. Prima ero il produttore, il filmmaker, lo sceneggiatore, il montatore … Invece in questa occasione ho avuto a disposizione un team preparato e professionale che mi ha permesso di fare solo il mio lavoro e di finire il film”.
“Quanto è autobiografico Winter of Discontent?”
“È autobiografico nel senso che è la storia di mio fratello, quando è stato sequestrato da suo ritorno dalla Bosnia, anche se l’obiettivo ero io, hanno scambiato persona”
“Perché hai voluto iniziare dalle torture?”

“Perché sono durate per moltissimo tempo. Ci sono molte motivazioni per lo scoppio della rivoluzione, ma soprattutto c’è la paura di essere rapito dalla polizia e essere torturato. La tortura è stata uno degli elementi fondamentali che ha fatto scendere in piazza le persone, è una delle esperienze più umilianti per gli esseri umani. Ognuno a Tahrir può raccontare la sua storia personale persa nei labirinti dei commissariati o delle carceri”. È angosciante l’immagine di Amr, abbandonato bendato in strada dalla polizia segreta, l’immobilità di un corpo che non sa dove si trova, l’ennesimo posto o stanza dove sarà interrogato e forse seviziato, mentre invece è un luogo desolato vicino al deserto, per una libertà momentanea, fino al prossimo sequestro.
“Il suono, il rumore di fondo (nella casa di Amr), come fosse un vento assordante e cupo che racchiude un’energia che sembra esplodere da un momento all’altro, dove è il confine tra la piazza e la paura di Amr?”
“Quando giro un film, il suono è estremamente importante quanto la scena visiva, mi aiuta a creare quell’atmosfera che non fossilizza il pubblico nella sola immagine. È importante creare quel mood che rievochi emozioni e sensazioni nello spettatore. L’appartamento di Amr è molto vicino a piazza Tahrir, le dimostrazioni passano sotto il suo edificio, può sentire i manifestanti, ha una grande voglia di partecipare ma è frenato dalla paura per quello che ha passato”
“Cosa è il muro della sua stanza che si vede dalla finestra? Il muro interiore o quello della gente?”
“Amr è un soggetto che è stato in prigione, e da quel momento è come se gli avessero rubato la sua umanità. L’appartamento è quello dove è cresciuto, e il muro, è il muro che esiste davanti a ognuno di noi. esistevano e ci sono ancora troppi quesiti per una massa che non sa cosa accadrà prossimamente. Quando avremmo eletto il prossimo presidente? Quando le donne e i bambini di strada otterranno i loro diritti? Quando il 40% degli egiziani che vivono sotto la linea di povertà miglioreranno la loro condizione? Tutti questi sono muri che ci bloccano come nazione. Purtroppo, sono fattori che rimangono anche dopo due anni dall’inizio della rivoluzione”
“Dove nasce l’idea di partire da dietro le quinte, dal punto di vista degli appartenenti al vecchio regime?”
“Molte delle nostre radici erano con il regime e con la polizia, nella maniera in cui funzionavano e pensavano, in cui isolavano e controllavano la società. Per me era importante far vedere e far percepire questi due soggetti, non nel cliché classico in cui sono stati sempre dipinti nei film egiziani, troppo feroci o troppo vicini al prototipo di eroe alla Mel Gibson, ma con un’anima, come il poliziotto Salah che capisce quello che sta facendo, perché è il suo lavoro”
“Quanto è difficile girare un film sulla rivoluzione quando è ancora in corso?”
“Ho girato il 13 aprile 2011, 5 giorni prima i militari erano entrati a Tahrir uccidendo diversi ufficiali che si erano uniti alla rivoluzione. Lo stesso giorno stavano trasferendo Mubarak e i suoi figli al carcere di Tora (in Sinai). Tutti questi fatti che accadevano intorno potevano influire negativamente. Quindi dovevo rimanere su due realtà differenti e completamente separate, dovevo evitare che si mescolassero e che ci fossero contaminazioni sulla trama, altrimenti avrei fatto un lavoro amatoriale. Dovevo convincermi al 100% che non stavo facendo un film sulla rivoluzione!”
“Che cosa ha significato per te partecipare al Festival di Venezia?”
“È stato un grande onore partecipare a uno dei Festival migliori al mondo ed è stato un grande passo per la mia carriera. Quando sono andato in Italia ero triste per quello che stava accadendo nel paese (vittoria dei Fratelli Musulmani (FM) alle elezioni presidenziali), ma al termine della proiezione c’è stata una standing ovation di 5 minuti che mi ha colto di sorpresa e mi ha rincuorato, perché quello che stiamo facendo in Egitto è importante”
“Nel film il protagonista afferma che la rivoluzione comunque vada a finire è già vinta. Dopo quasi due anni dallo scoppio, quanto è ancora vera questa affermazione?”
“Molto. La rivoluzione sarebbe dovuta accadere già molti anni prima, ed è scoppiata nel 2011 dopo 60 anni di diserzione. Il regime è collassato da 60 anni, in cui non abbiamo avuto educazione, sicurezza, pluralismo politico … Siamo stati sotto il giogo di una giunta militare per tutto questo tempo, tuttora stiamo pagando le conseguenze. Forse dovevamo passare attraverso quest’esperienza, ora abbiamo un lungo e duro periodo da affrontare. Ci saranno giorni in cui molti giovani verranno uccisi nelle strade, in cui i FM non abbandoneranno il potere tanto facilmente anche se dovessero perdere le elezioni. Durante la rivoluzione le nostre aspettative erano molto alte, ma sono cadute immediatamente; purtroppo è un cammino che non possiamo evitare per ottenere il successo finale”
“Con i mesi una buona parte della popolazione è tornata ad inneggiare Mubarak, molti oggi pensano che si stava meglio con lui … perché? Dove, e se, ha fallito la rivoluzione?”

“I giovani sono scesi in strada e hanno pagato con il proprio sangue per la libertà. Loro hanno fatto il proprio dovere e sono nel giusto. Non è colpa loro se molte cose dopo sono andate storte. L’esercito controlla il paese e ha dato il potere all’Islam politico, forse perché i FM erano l’unico partito ben organizzato, o forse perché ci sono stati degli accordi sottobanco. Qualsiasi cosa è accaduta, non è colpa dei rivoluzionari, perché sono stati onesti fin dal principio, hanno tutto il mio rispetto. Per esempio chi ha sbagliato è stato El Baradei, che si è arreso facilmente, o tutti quei candidati liberali che durante le elezioni non si sono uniti”. Un dialogo estrapolato dal film, un interrogatorio della polizia segreta.“Dottor Rafik William?” – “Sì?” – “Perché si è unito ai manifestanti?” – “Perché mia moglie è incinta. Voglio che mio figlio mi rispetti … Vede, io non sono stato capace di rispettare i miei genitori …”. Il Dr. Rafik è morto il 9 ottobre 2011, un mese dopo la nascita di suo figlio, ucciso dalla polizia militare a Maspero, palazzo della TV di Stato.
“Si può dire che hai messo in mostra il coraggio dei ragazzi di Tahrir senza quasi mai menzionarli visivamente?”
“Non potevo, e non posso tuttora fare un film sulla rivoluzione, potevo solo respirare il presente. Sarebbe stato come tradire i rivoluzionari. Il film rimane un contributo a loro, agli Shabeb e alla loro causa”
“Cosa pensa della vittoria elettorale dei FM?”
“Penso che sia una vittoria rubata, con una campagna elettorale basata su ipocrisie e bugie, spero che non accadrà di nuovo. I Fratelli hanno promesso moltissimo alla gente ma non hanno fatto ancora niente!”
“I FM si sono impossessati della rivoluzione?”

“Sì, perché controllano quasi tutte le cariche politiche importanti. Ma per me sono come un terremoto: viene come un lampo, termina subito e nessuno se ne ricorderà, ne sono sicuro al 100%. I FM Non hanno logica, non si preoccupano del paese ma dei loro interessi e della loro organizzazione. Se il PND di Mubarak è svanito, anche i Fratelli possono svanire”
“Che cosa ha regalato al mondo la rivoluzione egiziana?”
“Che un’intera popolazione può dormire per trent’anni e svegliarsi in tre giorni”
“Che cosa volevi dire terminando il film con la telecamera che inquadra i due protagonisti sul ponte Qasr El Nil (dove è iniziata la marcia della rivoluzione)?”
“Che la rivoluzione non è finita. Si continuerà a contare altri morti, altre vittime che saranno uccise per ottenere la libertà. Solo quando questo conteggio terminerà, allora la rivoluzione sarà conclusa!”

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[…] La rivoluzione in Egitto non è finita (Alias de Il Manifesto 29 giugno 2013) […]