… il ronzio delle eliche attutisce ogni pensiero. Solo il mare sotto il culo a qualche chilometro di distanza. Un colore diverso. Ripenso ai libri buttati sulla strada per la Francia. Solo adesso mi domando perché me li sono portati dietro, forse credevo di fare la guerra con le parole. Le palpebre mi si chiudono ma ho paura di dormire: i corpi maciullati dei nemici francesi sono ancora distesi davanti a me. Il corpo si affloscia ai sobbalzi dell’aereo.
“Guarda i bombardamenti …”.
“Che disastro …”.
“Speriamo che siano i nostri ad avere la megl…”. Un vocio e la virata dell’aereo mi destano di soprassalto. Ho gli occhi cisposi ma sono già sveglio. Mi sembra di aver riposato per ore eppure mi sento in uno stato confusionale, la pelle inzuppata di sudore, sarà il caldo.
“Quanto ho dormito?”.
“Non più di venti minuti. Guarda che casino sulla costa”.
Guardo oltre l’oblò. Un fumo nero si alza dalla terra, un contrasto con il turchese del mare e il bianco della sabbia. Poi a poco a poco si vanno smorzando. Mi rigiro. Il crepuscolo sta avanzando ma neanche la notte ci darà riposo. L’aereo vira di nuovo. Il caporale Ranieri sbatte la testa e lancia un suono sordo.
“C’ha la zucca vuota, per questo rimbomba”. Ridiamo tutti. Per un attimo il luogo del combattimento si allontana veramente, ma sappiamo che non abbiamo scampo: quella coltre di fumo è il nostro punto d’arrivo.
Le ruote sgommano e pattinano sull’asfalto. Appena scendiamo il manto nero ci stringe addosso tutto il calore assorbito durante il giorno. Scendo l’ultimo gradino, le palpebre vibrano, vedo le figure collassarsi su se stesse.
Mi risveglio in un letto. Una donna vestita di bianco maneggia con il mio braccio.
“Do-v-ve s-ono?”.
“È caduto come un sasso appena ha toccato suolo. Come diavolo hanno fatto a non accorgersene prima, la guerra acceca tutto, è l’unica priorità”.
“C-ch …”.
“41, 41 di febbre!!”, mi mette un panno bagnato sulla fronte, lo spillo metallico nel braccio. “Neanche le bestie! Se non avesse un fisico forte forse non ce l’avrebbe datta”. Sento le labbra secche. La testa pesante. “Si tiri su, ha tutta la maglietta bagnata”.
“A-c-qua, ac-qua”.
“Ma da dove venivate? Doveva vedere le pulci che venivano a galla dalla maglietta che abbiamo bollito! Una moria”, mi ha detto l’infermiera quando mi sono ripreso, per questo ci grattavamo tutti come scimmie. Passo la mano sulla testa, la ruvidità dei capelli rasi è quasi piacevole. Osservo questo paesaggio arido attraverso la finestra dal letto. Cammelli e dromedari vivono allo stato brado, il mare in un quadro, un uomo su una camionetta intrappolato in un destino di sangue: chi dei due avrà il sopravvento?
“Forza sergente, si sbrighi. Ha già perso due giorni in questo letto, la patria non sta qui per attendere i suoi comodi”, e dieci chili di sudore alla patria non li mette in conto.
“Sì signor capitano”. Mi infilo i pantaloni, devo stringere la cinghi di due passanti.
“Veloce Serafi, c’è un camion pronto solo per lei”. Attraversiamo un salone fatto di lamenti, urla, odore ferroso, disinfettante, merda e piscio. Le bende gocciano sangue, paura e morte. Guardo il pavimento, accellero il passo. L’uscita libera quel groppone nella gola. Il veicolo militare con il motore acceso sta aspettando. Vorrei dire basta, ho fame, voglio sedermi, bere un caffé. La mano sulla spalla fa svanire ogni pensiero.
“Fa il tuo dovere”. Il tono del capitato è più umano ma sono solo un altro fantasfma sul suo palmo. Salgo. Il fucile, la latrina di alluminio, una maglietta sbrindellata, lo zaino rattoppato, gli scarponi scuciti e scollati, il mare e la sabbia che scorrono, qualche beduino sul dromedario mi ricorda che lui è sempre esistito, i camion passano, il deserto non si muove. Il mio culo inizia a sobbalzare sulla panca di legno, mentre gli spari e le cannonate si avvicinano.
“Qui devi stare attento …”.
“Cosa? Che hai detto?”, il guidatore succhia la sua sigaretta fatta di tabacco e sabbia.
“Quel sentiero laggiù è tutto pieno di mine. Anche se cammini leggero come una ballerina ti fanno saltare il culo”, un ghigno gli taglia il viso, il filtro della Nazionale tra gli incisivi. Ripenso al salone dell’ospedale.
“Ne ho visti tanti maciullati che ho dovuto riportare indietro”. Solo ora mi accorgo di essere su una carro adibito ad ambulanza dove le altre panche sono ripiegate sulle pareti. “Con il tempo ci si abitua ma evito di guardare lo specchietto retrovisore. Punto la strada dal momento in cui parto fino all’ospedale dove eri tu, lì ci pensano gli infermieri a tirarli giù. Ho le palle per fare il becchino, ma odio la vista del sangue”. La sua voce è piatta, per lui è un dato di fatto al quale non può farci niente, neanche di ritrovarsi nel bel mezzo di una guerra.
I colpi d’artiglieria pesante si avvicinano. All’improvviso il camion si blocca. “Porca zozza!”.
“Che succede?”, in un primo momento mi dico che ci hanno colpiti e siamo stati fortunati a rimanere integri. Ispeziono tutt’intorno con il calcio del fucile sulla spalla. Vedo l’autista che è già sceso che scalcia svogliatamente il pneumatico e si sistema il cappelli sulla testa.
“Tutto bene?”.
“Poteva andare peggio. Lascia perdere il fucile e mettiti dietro a spingere. La ruota è rimasta incagliata dentro una buca di sabbia, prega che non ci sia una bomba inesplosa: un attimo e vengono a raccoglierci con le pinzette”. Si dirige sul posto del passeggero e tira fuori due sacchi di yuta pesante. Li sistema sotto la ruota da davanti scavando nella sabbia. “Pronto a spingere?”.
“Pronto!”.
“Al mio tre metticela tutta”. Sbatte forte la portiera. Accende il motore e inserisce la marcia. Spingo, le ruote scivolano sulla sabbia, il sudore graffia sul colletto della maglietta. Quando sono sul punto si mollare sento il veicolo sfuggirmi di mano: il sacco di yuta ha funzionato. Rincorro il mezzo.
“Ehi aspetta!”.
“Fossi matto, mica posso lasciare a piedi il mio unico passeggero!”.
Riprendiamo la strada per il buco di fogna da cui provengono le bombe e i segni d’inchiostro nero sul cielo. Il conducente ha il volto scavato dalla fame e da questo caldo impastato di sabbia e di mare, le occhiaie scavate come gli anelli di ferro dei cavalli alle pareti dei casolari. Stringo forte il ferro del fucile.
Le marce grattano, l’accampamento si fa più grande fino a che anche noi non ne facciamo parte.
“Eccolo! È arrivato quello che ci farà vincere la guerra. Alleluja!”, si porta dietro la sua risata, incavata sulla cannottiera bucherellata e le costole sporgenti. Gonfio impercettibilmente il petto per riempire la giacca.
“Lei deve essere il sergente Serafi”.
“Ai suoi ordini capitano!”, ha l’alito inzuppato di alcool, gli occhi vitrei e un colore cereo. “Con il suo bello scherzetto di ammallarsi ci ha fatto buttare via medicinali e carburante, ma qui servono braccia fresche”.