Nel primo pomeriggio di sabato 12 febbraio il traffico sul ponte 6 Maggio è caotico, si potrebbe dire “come ai vecchi tempi”, ma poi sulla cornice ci sono ancora i carri armati, il filo spinato e i soldati. Mancano i controlli delle carte d’identità e le perquisizioni e la gente è libera di passare tra gli spartitraffico di cemento posizionati per bloccare l’accesso.
L’euforia della notte precedente si è trasformata in gioia. A mano a mano che ci si avvicina al centro la folla va aumentando. Le auto di nuovo percorrono strade prima chiuse al traffico, i microbus sono fermi nella loro area di sosta che ieri era completamente deserta.
Passando per la piazza dedicata al generale Abdel Amr Riad ci sono molte persone armate di palette, scope e sacchi neri che ramazzano le strade piene di polvere e resti della sommossa delle settimane scorse. Molti giovani pitturano di bianco e nero il bordo esterno del marciapiede per ristrutturare la segnaletica stradale, altri tenendosi per mano formano un cordone ombelicale che segue per centinaia di metri lo snodarsi del marciapiede impedendo ai passanti di calpestare la pittura fresca. Altri ragazzi armati di secchi e spugne puliscono la statua del generale posizionata al centro della piazza e annerita dallo smog e dalla fuliggine delle vetture incendiate. Qualcuno gli ha messo una bandiera dell’Egitto in mano, sembra quasi che il generale voglia vegliare sulla generazione 2.0. Tutti sono permeati da un genuino entusiasmo, sostenuto dalla consapevolezza che il paese appartiene a loro e non più a una sola persona. Tutti si aiutano reciprocamente, se c’è un buco nel cordone di persone che proteggono gli improvvisati “pittori”, si chiamano volontari tra la folla e ognuno è ben disposto a occupare quello spazio vuoto così bambini, anziani, uomini e donne si ritrovano tenendosi per mano, come a mimare un girotondo della rivoluzione.
Le auto carbonizzate e le lamiere erette a barricate per proteggersi dagli spari e dalla sassaiola di mercoledì e giovedì scorsi che ancora ieri erano là, sono state rimosse. Si dice che l’esercito che voglia riaprire nel breve tempo le arterie principali del centro della città.
La gente che cammina sembra andare a una festa. Molti sono accorsi a visitare il luogo della battaglia come per andare a vedere le piramidi di Giza. Non tutti hanno partecipato attivamente alla rivoluzione, lo si nota dalla curiosità con la quale osservano le immagini dei morti affisse in molti angoli della piazza e dalle domande che pongono a chi la rivoluzione l’ha vissuta. Ciò non vuol dire che con la mente e con i cuori non fossero dalla parte dei dimostranti, anzi, la loro presenza oggi in piazza Tahrir dimostra il contrario.
Sulla strada accanto al museo egizio che unisce la piazza del generale Riad e quella di Tahrir, si notano di tanto in tanto sacchi di plastica pieni d’immondizia accatastati in alti mucchi, la loro figura sembra un’installazione contemporanea che rappresenta il residuo degli scontri.
In mezzo ai manifestanti già da tempo si erano posizionati carretti di venditori ambulanti di sigarette, di bruscolini, di popcorn e di panini, ma oggi sembrano più numerosi e decisi a fare buoni affari. E pensare che la scintilla della fiamma rivoluzionaria che sta prendendo piede nel mondo arabo è nata proprio da uno di loro, con un carretto di frutta e verdura, in un’altra città, vicino alle coste della Sicilia! Sarebbe da augurarsi che attraversi il Mediterraneo per fare un po’ di pulizia nella politica del Bel Paese, ma gli albori degli anni ’90 sembrano lontani un’eternità. C’è da domandarsi se tra vent’anni anche gli egiziani saranno di nuovo punto a capo, come se una maledizione si sia abbattuta sui paesi che si affacciano sul Mediterraneo.
Tutte le arterie che portano a Tahrir s’ingrossano di gente e la piazza a sua volta sembra esplodere di persone. Viste dall’alto sembrano migliaia e migliaia di formiche umane che si muovono senza senso, in un’ondata di pathos che non vuole smettere. Infatti, da quanto sembra dalle ultime notizie, i manifestanti non vogliono sloggiare fintantoché non vengano esaudite tutte le loro richieste. I militari pensavano che la testa di Mubarak avrebbe accontentato la piazza. Il popolo chiede che le riforme siano veramente fatte e con scadenze delineate. I cittadini egiziani sono stati presi in giro per troppo tempo, e ora storcono il naso a facili promesse. Chiedono uno stato democratico e di diritto uguale per tutti, vogliono che i militari siano chiari sui tempi, vogliono che tutti i prigionieri incarcerati negli ultimi diciotto giorni siano liberati. Non si fidano, per quanto rispettino i militari, sanno che Mubarak era una loro espressione, era uno di loro.
Dall’alto la piazza sembra un corpo unico. Secondo il punto di vista di chi scrive i militari soddisfaranno le richieste della protesta. Dopo aver rimosso Mubarak teoricamente ci sono tutte le condizioni per le quali, come spiegato in altri articoli, gli egiziani non vorranno sottostare a un altro regime autoritario, sia esso militare, religioso, poliziesco, comunista o capitalista. Ci vorrà del tempo per ricreare quel tessuto politico che è stato schiacciato e annientato negli ultimi cinquantanove anni di potere militare. Un altro fattore da non sottovalutare, è la polizia, l’altra fazione che ha perso insieme a Mubarak. Se starà con il tanto anelato nuovo regime democratico o se coverà vendetta, è ancora tutto da vedere, ma si deve tentare di reintegrarla come componente della società civile per fare sì che le riforme siano veramente effettive.
Il sistema egiziano è un sistema malato, la corruzione è la prassi per ogni affare e per ottenere un lavoro. Ora i giovani egiziani puliscono le strade aiutandosi reciprocamente, ma quando l’entusiasmo sarà sparito, saranno capaci di cambiare un modo di fare radicato da decenni? Osservando cosa è successo nella sponda nord del Mediterraneo, le prospettive non sono delle più incoraggianti, l’auspicio è che gli egiziani non seguano la strada tracciata dagli italiani i quali hanno perso un’occasione dopo l’operazione Mani Pulite.
Di ritorno verso l’isola di Zamalek, il cielo diventa rossastro. Si notano le luci accese sui battelli ormeggiati sulla sponda ovest del Nilo, imbarcazioni che una volta venivano usate per le crociere sul Nilo oggi trasformate in ristoranti e discoteche. Anche sulla sponda opposta barche più piccole e per tasche più popolari sono disposte lungo la linea della cornice. Il contorno dell’hotel Novotel accanto alla Torre del Cairo è una luce artificiale blu che disegna un parallelepipedo, mentre alcune finestre dell’Hilton Ramses si sono riaccese. La città fuori dal centro sembra riprendere la vita normale, quando solo la notte prima il Nilo era una massa di acqua nera immersa nella luce giallastra dei lampioni che sembrava portare un cattivo presagio in un’attesa surreale.
Il traffico è tornato a essere di nuovo congestionato e ad assomigliare a quello di poche settimane fa, anche l’aria piena di smog è ritornata irrespirabile. Mentre scrivo, nella mattina di domenica 13 febbraio l’esercito sta liberando la piazza Tahrir dagli occupanti permettendo l’accesso alle macchine. Anche il centro sembra tornare alla normalità, come se gli ultimi diciannove giorni fossero solo una parentesi, una parentesi che ne ha cancellata un’altra lunga 29 anni, 3 mesi e 28 giorni.
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