Lettera, Roma 1943.


Un rumore assordante riempì il cielo. Continuo. Penetrante. Le persone si fermarono improvvisamente. I vicoli e le strade erano permeati di quel ronzio, per un attimo si credette che fosse un terremoto. Il frastuono si faceva più forte, invadente. L’altoparlante di dirigersi verso i rifugi. Non c’era più tempo, dal cielo piovevano ombre alate, una nuvola di aerei. Pezzi di metallo incominciarono a cadere. Le pareti crollavano, le grida superavano il ronzio dei motori alati, le esplosioni tacitavano le sirene, il pianto di un bambino di due anni era fagocitato dal panico delle migliaia di gambe che lo sfioravano. Me lo sono stretta al petto. Ogni muro era nemico, il suo pianto strillava dentro il petto, faceva più male delle bombe, degli uccelli di ferro, della paura dell’aria, mi sono accasciata accanto ad una fontana con lui in grembo. Avrei voluto che l’acqua mi ricoprisse, che attutisse tutti i suoni, che cancellasse le immagini, che acquietasse l’urlo nella testa.

 

Le automobili con il muso allungato e i fanali di gufo sono accartocciate sulle ossa di lamiera, le schiene scollate della modelle di “La Donna” sono un ricordo sbiadito insieme alle nostre risa Viola. Ho paura. Il turbine di metallo è sparito, le camionette dei pompieri irrorano l’acqua, ma le fiamme di un regime di carta lasciano solo desolazione e vuoto. Dov’è il nostro Duce? Chi ci ha rubato la “Giovinezza”, i sogni scolpiti in un’uniforme? Quando tutto questo finirà non voglio più farmi irretire da un singolo volto su una foto, il mio cuore è stato prosciugato dalle lacrime di quel bambino. nel punto in cui era ora c’è un cratere, una fossa che solo in un altro tempo sarà ricoperta da una strada. Un altro vento forse soffierà, ma le persone che lo solcheranno non saranno state tanto diverse da chi l’ha precedute; chi vive un’epoca porta in sè un marchio indelebile. Le sirene suonano di nuovo. Il palazzo della Balduina si è spogliato delle vite unane. Una porta cigola, il rubinetto della vicina goccia, un cane latra in cortile dieci piani in basso, lo sfrecciare di un camion in lontananza gioca nei corridoi dell’appartamento, le voci di alcuni sciacalli ne prende il posto, il rumore dei miei denti s’impossessa della stanza, gli aerei tornano a ronzare. Chiudo gli occhi, mi nascondo dentro me stessa.

Ti scrivo perché almeno tu non dimentichi la nostra infanzia, i nostri abbracci di bambine, i lavori all’uncinetto, i corsi d’infermiera, le cure per la casa, l’Almanacco delle Giovani Fasciste, La Donna dietro il bancone del negozio dove lavoravi fin dalle Piccole Italiane, la voglia di uscire da tutto questo per vivere una nostra vita, con un governo che ci prometteva libertà ma ci rilegava ai soliti posti tradizionali di sempre. Ora di quelle due bambine sei rimasta solo tu Viola, tu che amavi Giorgio morto in guerra, tu che odiavi tua madre ma non riuscivi a liberarti della sua ombra, tu che hai ipnotizzato gli occhi verdi di un ciuffo calabrese, tu che sei rimansta innocente tra le mille ipocrisie, tu che hai ancora paura dei tuoi sogni.

Ho amato i nostri tempi. Sento un motore nel cielo che si avvicina, forse faccio in tempo a chiudere la lettere. Quanto vorrei sentire la stretta calda del tuo corpo ora mentre tengo gli occhi chiusi e la mia mano trema.

Ti voglio bene Viola. Tua amica di sempre.

                

     Amanda

2 commenti

  1. oddio che bella…mi è venuta la pelle d’oca, sembra di sentire quell’ansia e allo stesso tempo la malinconia dei tempi passati! sbrigati che voglio leggerlo tutto! bacio, buon lavoro

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