La differenza ragguardevole tra il Medio Oriente e l’Europa, e in particolare l’Italia, è la spiccata maggioranza di giovani nella società. Questa caratterizzazione è stata la spinta fondamentale delle rivoluzioni tunisina ed egiziana. Quest’ultime, in uno dei tanti paragoni proposti, possono ricordare il ’68 dell’Occidente, quando i giovani europei e americani si ribellavano al sistema patriarcale che voleva dettare regole a una società che non lo rispecchiava completamente. Anche nel ’68 c’era una forte componente giovanile (dovute al boom delle nascite postbelliche) che cercava un riscatto e un’affermazione nella società secondo propri stili e propri modelli, come oggi nel panorama arabo. In quegli anni venivano gettate le basi per una società più egualitaria e sociale, meno classista e nobiliare.
Pasolini identificò i sessantottini italiani come “una espressione della borghesia che si schiera sulle barricate contro se stessa”, però è vero che quel moto giovanile ha portato dei cambiamenti nella società che tutt’ora rimangono vigenti. I giovani del sessantotto, per quanto fossero i figli viziati di papà, chiedevano libertà, possibilità d’espressione, di incidere nella società con le proprie capacità, di avere un ruolo attivo nel substrato urbano … Se la storia fosse stata privata di questo movimento, non sarebbero stati introdotti in Italia il telefono azzurro, le quote rosa, i centri di recupero per tossicodipendenti e alcolizzati, una maggiore uguaglianza tra uomini e donne, l’assistenza al disabile, le pari opportunità, il divorzio, un’aggregazione sociale e politica più consapevole … sebbene molti mali sociali sono nati in quegli anni, la società si è sensibilizzata dopo quel lungo processo iniziato negli anni ’60. Ovviamente il percorso non è stato facile, si è assistito al decennio di terrore degli anni ’70, ma la società risulta più duttile e meno arcaica rispetto all’archetipo che aveva negli anni precedenti il ’68. Quest’ultimo ha avuto anche molti ripercussioni negative: terrorismo sopra citato, la diffusione generalizzata della droga, la commercializzazione di tutto quello che può essere vendibile, la banalizzazione e sminuimento dell’individuo (spesso rilegato a oggetto dentro la società capitalistica ancora di più dopo la caduta del Muro di Berlino). È invero che il ’68 ha avuto degli effetti e portato dei cambiamenti dentro la società patriarcale-cattolica antecedente quegli anni.
Dall’inizio degli anni ’80, si è assistito all’erosione del senso civico e di comunità. La parabola discendente è iniziata con lo spezzettamento della figura del lavoratore. Durante la fine del diciannovesimo secolo e la prima metà del ventesimo, il pensiero capitalistica ha compreso l’importanza della forza lavoro e del suo potere come insieme in base alle lotte di classe. Nell’ultimo scorcio del secolo passato, ha però compreso che un movimento diviso, è più debole e più attaccabile, più facilmente addomesticabile. Quando questo movimento/moto perde la sua coesione e unità, non è in grado di affrontare la sfida del mondo capitalista e globalizzato del uovo millennio, partendo così già perdente. Negli anni ’80 si è assistito al processo di sgretolamento dell’organizzazione operaia e lavorativa in generale in tutto l’Occidente europeo. Si sono creati mille, milioni di facce lavorative. Negli anni novanta questo corso si è ancora di più acutizzato, dal un lato con la caduta della dittatura comunista in URSS, e dall’altro con la creazione dei lavori temporanei, i cosiddetti CO.CO.CO (lavori che hanno generato un totale senso di precarietà). Che cosa ha generato questi due fattori? Un cambiamento radicale dentro la società. Lo spezzatino del lavoro ha portato/indirizzato/incanalato/convogliato la gente a pensare solo se stessa e ai propri interessi; se ciò era vero anche prima, quello che si è perso è stato l’interesse non come classe, ma come tessuto sociale all’interno della comunità civile. La perdita dei valori a livello nazionale, ha condotto negli ultimi anni a un decadimento europeo, culturale, economico e politico, di cui l’Italia costituisce l’esempio più ridondante.
La crisi economica del 2008 ha mostrato apertamente le crepe del substrato sociale occidentale, incapace di pensare a un futuro nel medio-lungo termine, ma solamente a un mero/incerto/precario/irretito/effimero/offuscato domani. Il concetto capitalistico dell’affermazione dell’individuo solo come ascesa sociale e monetario-professionale, è riuscito a dividere in mille sfaccettature anche i giovani e far perdere loro la bussola quale entità unica, e quindi anche l’obiettivo per un futuro che, sebbene pieno di insidie e incerto, sia un luogo comune dove ci si sente parte di un’unità, di una comunità, e non come un obiettivo da raggiungere nel breve tempo possibile; il futuro non è solo l’interesse individualistico del proprio beneficio immediato, ma un luogo dove si può convivere con i propri concittadini, dividendone gli spazi e l’ambiente circostante. Non si intende l’omologazione dell’individuo, ma una visione comune di possibilità uguali per tutti nell’ambito delle proprie capacità, conoscenze e professionalità. Il successo immediato e il riconoscimento pubblico-televisivo hanno svuotato completamente il giovane (con reality e talk-show a cui si anela partecipare), con poche eccezioni, che purtroppo nella maggior parte dei casi fuggono all’estero. I modelli di successo proposti ai giovani dai media sono standardizzati dentro una concezione mono-visiva, dettata da interessi affaristici, e stereotipi capitalistici. Si è assistito a un’erosione della cultura. Il riconoscimento monetario può essere uno dei apprezzamenti sociali, ma non deve essere l’unico metro di giudizio con il quale il giovane e l’individuo si deve confrontare. Sminuire il valore degli insegnati, dei ricercatori, dei beni culturali dello stato, dei magistrati, ai dottori e infermieri, agli addetti ai musei … che cosa ha portato? Cementizzare il territorio porta solo a un’utilità immediata e deturpando il paesaggio delle future generazioni; in uno stato di diritto i magistrati sono a loro volta soggetti alle leggi quanto gli altri cittadini, e sono responsabili davanti alla legge per le funzioni che svolgono nel ruolo che gli compete.
Con la crisi economica si è assistito ad un acutizzarsi dei contrasti sociali e la forbice di differenza tra ricchi e poveri. Purtroppo la previsione vichiana del ripetersi della storia e degli eventi, c’insegna che quando verrà la ripresa economica, tutto tornerà come prima, e questa discussione sul futuro, sarà dimenticata dai giornali e dalla televisione, e se non sarà dimenticata, sicuramente rimandata al momento in cui la parabola discente del decadimento europeo non abbia toccato veramente il fondo (in base alle proiezioni dell’Eurostat nel 2050). Le domande che sorgono spontanee sono: perché non fare qualcosa già da prima? Perché la società civile non si mobilità per chiedere alla classe politica di restituirgli il futuro? È vero che non siamo più l’Italia giovane del ’68, e l’invecchiamento della popolazione è uno dei motivi per il quale si è protesi alla difesa dei propri interessi acquisiti e quindi restii al cambiamento, ma il percorso iniziato alla fine della seconda guerra mondiale non è ancora stato portato a termine. Un buon padre è colui che pensa al futuro del proprio figlio, non dandogli €20 al giorno, ma dandogli un’educazione, la possibilità di studiare, di crescere in un ambiente che gli insegni il rispetto delle regole civile, un padre che “lotta” perché la società in cui dovrà vivere suo figlio sia giusta e uguale per tutti.
Che cosa insegna le rivoluzioni tunisina e egiziana? Che lasciare tutto in mano ai meccanismi del mercato, agli affaristi senza regole, crea sperequazioni, una distribuzione iniqua della ricchezza e della conoscenza. In Europa si sta formando una nuova nobiltà che si arrocca diritti e possibilità, senza dividere nulla con il resto della società: migliori istituti per studiare, migliori posti di lavoro, ascesa sociale e professionale … Democrazia significa vita decente e dignitosa per la maggioranza della popolazione e non il profitto di pochi; significa solidarietà e progresso dentro la società con pari opportunità; significa possibilità di vedere un futuro che non sia solo domani; significa giustizia sociale e legge uguale per tutti; significa meritocrazia altrimenti la democrazia viene erosa giornalmente con la corruzione, l’interesse personale o partitario, con il beneficio di una élite ristretta, così la democrazia perde il suo valore e il suo senso di esistere. I giovani egiziani e tunisini ricordano agli europei verso quale baratro si sono incamminati. Nell’autunno del 2010 ci sono state proteste anche in Europa, ma dovuta a una piccola minoranza. C’è bisogno di levare la voce, di farsi sentire come corpo unico, anche nella miriade di tipologie di lavoro che esistono oggigiorno, perché quello che l’élite sta rubando, è il futuro di tutti. Gli egiziani e tunisini protestano per diritti che mai hanno avuto, per la povertà devastante e dilagante nei rispettivi paesi; più di mezzo secolo fa l’Europa verteva nella stessa situazione, i diritti sono stati acquisiti, come la povertà ridotta al minimo, si vuole ritornare indietro?
Un impulso/movimento proveniente dal basso, nato su internet e propagato tra tutte le classi sociali, per un coinvolgimento quasi totale della popolazione, è stato questo il segreto delle rivoluzioni arabe, ed è stato questo lo spirito di piazza Tahrir. È quello di cui ha bisogno anche l’Italia: un movimento che nasca dalle piazze, che faccia capire a tutti i politici di non perdere tempo: di investire sui giovani, sulle tecnologie, sulla produzione locale per aiutarla nell’export, sulla lotta alla mafia e alla corruzione, sulla redistribuzione delle ricchezze in base alla meritocrazia e non ai giochi di potere, perché se non si fa qualcosa ora, l’Italia è un paese dove in un futuro solo il 20% ricco sarà ricco, e non sarà un paese industrializzato o postmoderno, sarà un paese alla deriva.
Una delle carenze fondamentali di cui soffre l’Italia, è la bassa percentuale di laureati all’anno rispetto al al resto d’Europa: solo il 19%, in comparazione con Inghilterra (60%) e Spagna (56%), siamo il fanalino di coda, sebbene sarebbe da verificare la qualità dei laureati usciti dalle diverse università europee, servirebbe uno studio comparativo. L’Italia è un paese dove l’industria è forte, rappresenta il secondo paese dopo la Germania a livello europeo per produzione industriale, potrebbe essere una delle ragioni per la quale ci sono pochi laureati: perché l’industria richiede manodopera, specializzata e educativamente poco preparata. Ciò potrebbe costituire un analfabetismo di ritorno della popolazione, ma non nel senso classico. Un cittadino poco attento ai propri diritti, lobotomizzato dalla TV, è più facile gestirlo e convincerlo di non essere titolare di tutti i diritti che le generazioni passate avevano acquistato con lotte e dimostrazioni in piazza. Gli studi universitari, insieme all’educazione famigliare, aiutano a sviluppare quella capacità di analisi che permette di interpretare gli eventi che accadono con puntiglio critico.
Il sistema capitalistico ci dice che in Italia non ci sono i soldi, che le pensioni non saranno sufficienti per tutti, che i giovani avranno la pensione con il 30-50% del proprio stipendio tra 30 anni, che le pause lavorative non servono più, che il pranzo è un surplus e incide negativamente sulla produttività, che i cinesi c’invaderanno ed importeremo la loro tecnologia … In questo marasma sociale e di editti apocalittici il campanilismo e l’interesse particolare prendono il sopravvento. Quando non ci sono prospettive per il futuro, si emigra all’estero o si cerca di accrescere il proprio status e benessere a discapito dell’altro, anche se questo altro è la maggioranza del paese. È per questo che si sta creando una nuova nobiltà, arroccata su privilegi che si sta costruendo a poco a poco, giorno dopo giorno. C’è bisogno di una scossa dal basso, perché i cittadini prendano coscienza dei propri diritti usurpati e del futuro negato, facendo pressioni sul governo di turno per cercare una soluzione che possa migliorare la possibilità lavorativa e sociale.
Le statistiche evidenziano un altro aspetto; indici alla mano il fatturato della mafia italiana si aggira intorno ai 200 miliardi di euro l’anno; 300 mld di euro è l’ammontare dell’evasione fiscale italiana all’anno. Tutti questi soldi dove vanno a finire? Se questi soldi fossero legali e venissero contabilizzati dallo stato, l’Italia non avrebbe bisogno di nessuna manovra economica correttiva, in cinque lustri ripianerebbe il debito pubblico, avrebbe un PIL pro capite maggiore della Germania e saremo tra i primi nel rating di Standard & Poors, Moody’s e Fitch. Quanti cittadini ci rimettono annualmente per l’evasione e per la mafia? Quante famiglie? Quanti lavori e opere pubbliche si potrebbero fare annualmente con 500 mld di euro? Quanti professori si potrebbero assumere? E come potrebbe essere migliorata l’educazione pubblica? Quanti musei si potrebbero aprire? E quanti alberghi costruire? E quante strade portare a termine? Gli egiziani si domandano quante cose si potrebbero fare con i 70 mld di dollari che Mubarak ha nei suoi conti svizzeri (e Mubarak è solo l’apice della piramide), gli italiani su cosa s’interrogano?
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