
Yahya Abdallah è un regista che ha la capacità di condensare tutta la Tunisia dentro 50 minuti di documentario; Nahnu Huna (Noi qua) è un lungometraggio che descrive amaramente una realtà isolata con la poesia e la crudezza delle immagini, immagini che ad ogni modo sanno emozionare. Così la prosa si srotola nel frame della pellicola: una vecchietta seduta davanti alla porta di casa su una sedia sgangherata, mentre la musica rap canta in sottofondo di un tempo andato, in cui esistevano altri valori e l’amicizia aveva importanza fondamentale nelle relazioni interpersonali dentro la comunità, mentre ora viene tradita anche dagli amici più intimi. La solitudine scorre in quell’immagine spiazzante, racchiusa dentro i cavi dei pali elettrici e una sparuta parabola adagiata sul tetto che sembra rappresentare l’unico contatto con un altro mondo.
Bayrem nel documentario è il filo conduttore della trama del film che, sulla sua piccola bici, corre in mezzo alla gente, alla povertà, alla mancanza di un futuro del quartiere poverissimo di Tunisi Jbel Jlud,. La musica del liuto mediorientale e del rap lo accompagnano e raccontano il rione, come in questo rap: “Quartiere di miseria, dappertutto tracce di sangue, le pareti e i muri ne sono testimoni. Spoliazione dei beni e dei diritti, è un dato di fatto, una verità, il quotidiano. Il sistema è quello d’imporre la regola, una tecnica falsa della vessazione e dell’emarginazione … Sangue! Miseria! Repressione … Menzogne! Sottomissione! Quale schizofrenia!? …. Attenzione alla mia collera, alla mia rivolta, non provocatemi … sono fiero, libero, e soprattutto tunisino! Non sopporto le frustrazioni. Criminale e pieno di risorse … io lo sono! Lasciatemi esprimere, parlare liberamente! Vogliono chiudermi la bocca, ma non ci riusciranno”

Nel film un intervistato racconta la sua storia: “Sono appena evaso di prigione, sono disperato e pronto a tutto. La cultura di Jbel Jlud è il furto, il saccheggio, le rapine e lo sballo … questa è la cultura che Ben Ali ha implementato nel nostro quartiere”. Poi all’improvviso appare una panoramica del rione. Un adulto seduto sulla collinetta mentre guarda il traffico della tangenziale che spacca a metà l’urbanistica del quartiere, domanda al bambino accanto a lui: “Che vorrai fare da grande? Che cosa vuoi diventare?”
“Diventerò gommista”
“Gommista? Perché proprio questo mestiere?”
“Così …”, il bambino s’infila l’indice nella scarpa da sport, si gratta, un dettaglio che descrive mille emozioni di uno stato d’animo infantile, di un modo di relazionarsi con i più grandi; quel particolare già fa capire che il regista Abdallah non è uno sprovveduto, ma che sa carpire le emozioni dei personaggi che rivestono il ruolo di se stessi.
“Sembra che ti piace questo lavoro, e sembra che sia ben pagato …”
“Sì …”
“La gente non può certo guidare una macchina con la ruota bucata. Tu ripari la gomma e prendi i soldi; Bayrem, puoi vivere senza soldi? Chi può vivere senza soldi?”
“Persone …”, l’adulto gli accarezza la testa.

“Invece vedo che diventerai un calciatore piuttosto che un gommista … più bravo di Ronaldinho”. Poi l’immagine si sposta su spaccati del quartiere: uno sfascio con un mucchio di vetture distrutte accatastate l’una sull’altra, una donna con l’higab che porta a spasso le proprie capre, ragazzi che spacciano, la disoccupazione scavata sui volti dei giovani. Poi sono le parole di Yahya Abdallah che spiega direttamente che cosa è Jbel Jlud.
“Questo è il tuo primo lungometraggio?”
“Sì, è il primo lavoro professionale in assoluto, ma ho fatto tanta gavetta. Ho studiato presso l’università di Multimedia e mi sono laureato nel 2003. Poi, come detto ho lavorato come aiuto regista in documentari, in film e in televisione. Il film “Noi qua”, è di mia concezione, ho preso una camera e sono andato in strada con l’idea in testa. Anche il modo di riprendere non segue una logica pianificata con un gruppo di lavoro, almeno all’inizio, questo perché nel quartiere dove ho girato, Jbel Jlud, è impossibile entrare con altre persone, troppo pericoloso, troppa criminalità: c’è spaccio di droga, lotte tra bande, assassinii giornalieri …”
“Che cosa vuoi dire con Noi Qua?”
“Ho ripreso molte situazioni con la mia videocamera durante la rivoluzione, ma non sentivo il bisogno di girarci un film. Sono più interessato a spiegare i motivi per i quali c’è stata la rivoluzione; sono concentrato sui sentimenti post-rivoluzionari e i problemi che affliggono il cinema tunisino, allo scopo di cambiare il paese. C’è gente che vive ma effettivamente non vive! Il problema non è la povertà o la mancanza di cibo, è la consapevolezza”
“La consapevolezza tra le persone?”

“Sì, perché non sono coscienti di quello che succede. Ogni volta che viene detto loro qualcosa, loro la prendono senza analisi critica, perché sono i media che stabiliscono l’umore della popolazione indirizzando la mente della gente, incominciando a parlare a ruota libera su argomento prestabilito … Così alla fine non si parla mai del futuro del paese! Questo è un problema di fondo. Esiste gente svantaggiata, che non riesce a mangiare giornalmente in tutti i posti nel mondo c’è povertà, ma il nostro problema non è questo, è la mancanza d’attenzione a cosa succede nel paese, al suo futuro, nel campo politico, sociale, economico … Non siamo veri cittadini, perché c’è solamente il 10% che lavora, decide le sorti della nazione, mentre il restante 90% subisce le decisioni di questa minoranza. Tutti vogliamo avere voce in capitolo sulle sorti del paese, vogliamo esprimere la nostra opinione, ne abbiamo abbastanza di questo potere politico che fa e non fa, in questo modo non si capisce che cosa è veramente la democrazia!
“Non pensi che la situazione sia simile a quella egiziana dove le politiche sono le stesse del vecchio regime?”
“Sì, non c’è niente di nuovo, soprattutto quando i media parlano. Non ci sono parole che rispecchiano la forza e l’energia rivoluzionarie che c’erano all’inizio, sono solo parole e annunci di proforma: dignità, onestà, giustizia … ma non esiste una strategia chiara. Il problema qui in Tunisia è che il sistema precedente è presente, non ci sono media sociali ma solo privati; non ci sono studi sociali per risolvere i problemi della comunità. Noi, come registi, proviamo a mostrare gli aspetti e i temi su cui sensibilizzare la popolazione. Se si guarda come vive la gente nel quartiere di Jbel Jlud si può imparare qualcosa …”
“Ma nel film lo zio dice al bambino piccolo: “se tuo padre vuole tornare dall’Italia, digli di non tornare, qui non c’è niente da trovare”, si riferisce a Jbal Jlud?”

“Il padre è andato via durante i giorni della rivoluzione, tornare non serve a nulla. Molta gente del quartiere che vediamo nel film è gente che impugna coltelli, che è dedita alla droga e alla criminalità … non c’è rispetto dell’altro. Allora, per che cosa deve tornare suo padre? Dobbiamo provare a essere onesti con la società, non vogliamo essere dei mendicanti in modo tale che il governo venga e ci dia una mano, non vogliamo una mano, vogliamo che il governo sia onesto e sincero; la gente in quel quartiere vuole lavorare e non essere etichettata come il rione dell’emigrazione!”
“C’è una signora anziana vestina in modo tradizionale che dice: “La rivoluzione appartiene ai giovani”, che cosa vuoi dire?”
“Nel film c’è una parte vera, come quella dei cantanti rap, che vogliono strillare la loro verità fuori dal quartiere ma non ci riescono. Poi ci sono gli studenti con il loro desiderio di dire che ci sono, che sono presenti, e lo fanno aiutando i poveri dell’entroterra tunisino, anche se a loro volta questi studenti vivono in uno dei quartieri più poveri dell’intera Tunisi. Si organizzano e chiedono aiuto alle università e alla gente comune: soldi, cibo, vestiti … e vanno ad aiutare un’altra regione povera della Tunisia. Questa donna anziana dice loro che la sua gente non vuole aiuto, ma salari per poter vivere; un proverbio dice: “Non mi dare un pesce e poi dirmi come devo cucinarlo”. Il nostro desiderio è vivere decentemente”

“Quali sono i tuoi programmi per il futuro?”
“Il film mi ha aperto nuove idee, soprattutto sui progetti riguardo la società civile. Molti che hanno visto il film, mi hanno detto che converrebbe specializzarmi su film che parlano di quartieri, ma non sono d’accordo. È vero che Jbel Jlud può rappresentare tutti i quartieri e per questo mi piacerebbe che il film abbia una grande distribuzione, perché diventi una cartolina per impreziosire le discussioni sulla comunità tunisina nelle strade in Tunisia. Molto probabilmente il prossimo film sarà un documentario incentrato sui salafiti”
“Quindi preferisci specializzarti su documentari?”
“Non proprio, perché sto anche scrivendo la trama di un film che parlerà della disoccupazione, avrà un taglio ironico e sarcastico, molto verosimilmente sarà un corto. Il documentario invece sarà incentrato sui giovani salafiti, perché non so spiegarmi come sia possibile che un giovane possa divenire un salafita! Che cosa lo interessa veramente? Ci sarà bisogno di ricerche sul campo, interviste … una bella sfida. Lo scopo è quello di scoprire quale è la vera identità tunisina attraverso i salafiti, perché non voglio incentrare l’interesse della gente solo sui problemi economici, ma su quello che veramente si fa per la comunità, che tipo di collaborazione esiste tra le persone, anche se di stampo religioso, perché deve esserci consapevolezza di quello che si fa”

“Perché il discorso della consapevolezza è così importante per te?”
“C’è una parte nel film di “Noi qua”, dove c’è un ragazzo che vende hashish, lo vende ai poveri per 10 dinari, mentre 20 a chi ha i soldi. Anche se vende droga, pensa alla stessa classe sociale da cui proviene, mentre gli altri pensano solo ai soldi. Bisogna vedere la realtà e la verità nascoste dietro le apparenze; l’importanza di un regista è quella di essere il più obiettivo possibile, senza compromessi”. Lo spaccio di droga è uno dei pochi lavori che porta soldi e presente nel quartiere, non ci sono altre alternative alla disoccupazione. Il regista ha il coraggio di presentare un problema serio, perché in Tunisia non esistono possessori e consumatori, ma solo spacciatori soggetti a una dura punizione: carcere per un anno, un’ammenda di €2000, il sequestro del passaporto per 5 anni e sicuramente un futuro cancellato. Lo stesso Abdallah ha subito pressioni e intimidazioni dalla polizia per rivelare i nomi delle persone che appaiono nel documentario, bloccando diverse volte la proiezione del suo film, ma Yahya continua dritto per la sua strada, perché la polizia non sarà un ostacolo al raggiungimento del suo obiettivo.
“Dove hai preso l’idea del film?”
“L’idea mi è venuta da un professore teatrale, Mohasin El Adab. Eravamo seduti insieme, e mi ha detto che c’era un gruppo di studenti che si era riunito nel quartiere di Jbel Jlud per organizzare aiuti alla zona povera del centro. Così ha iniziato a parlarmi del quartiere, della sua gente, e come fosse possibile che della gente già povera pensasse di aiutare altri poveri! Come era possibile che pensassero di poter cambiare la vita di altre persone se già la loro esistenza non glielo permetteva? Come aiutare gli altri se già non si ha la possibilità di sostentare se stessi? Per me era qualcosa di straordinario, un’energia positiva, forse la stessa che ha portato alla rivoluzione. Andando nel quartiere ho ricevuto un altro regalo: ho incontrato un cantante rap, Jacko, che ha un’energia sociale incredibile attraverso il vissuto a Jbel Jlud, canta e racconta la vita del proprio quartiere. Così ho unito le due storie. Entrambe per me rappresentano la Tunisia, perché i giovani sono gli unici che possono costruire una nuova Tunisia: non gli islamici o altre ideologie! Loro sono i leader che porteranno il futuro, perché sono stati loro ha iniziare la rivoluzione. Li ho visti affrontare la polizia senza essere preparati, parte erano degli Ultras e parte universitari, uniti nella sfida contro il sistema. Ora questi ragazzi hanno la possibilità di parlare e costruire il loro paese attraverso le loro idee. Io, come uomo, sono soddisfatto perché sono responsabile del mio paese, e non viceversa che il paese sia responsabile per me!”

La poesia del film scivola sulle ruote della piccola bici di Bayrem, sulle pareti bianche delle abitazioni tunisine incrostate dal tempo, sui panni stesi di terrazze senza speranze, sulle mani collose di un’anziana che strizza il bucato; attraverso i palazzi fatiscenti, gli sfasci della macchine, l’indifferenza delle persone all’apatia quotidiana, le strettoie dei muri del quartiere. Il regista Yahya Abdallah unisce sapientemente i diversi connotati della Tunisia post Ben Ali, post Burghiba, post-moderna, racchiusi dentro Jbel Jlud: il movimento rap unito a quello dei graffiti, la voce dei giovani che chiedono solamente un lavoro, la droga come unica alternativa alla disoccupazione, la prigione come spettro perenne sulla propria esistenza, la decisione di giovani ragazze (ex rocker) d’indossare il velo, la laicità dello stato … tutti argomenti scottanti che chiedono risposte anche se ancora non ce ne sono. Il piccolo Bayrem fa un viaggio con la sua bicicletta per mostrarci l’altro lato della Tunisia, i motivi che nascono dietro una rivoluzione soffocata dai soliti giochi dei politici di turno, mentre la frase di un professore nel documentario ci ricorda ciò che è veramente importante: “Costruire una scuola a Jbel Jlud è più redditizio che costruire un commissariato di polizia, è attraverso la cultura che riusciremo a mobilitare la maggior parte di questi studenti, in modo che Jbel Jlud possa divenire un polo d’irradiazione-imitazione”.
Yahya Abdallah sa cambiare sapientemente l’inquadratura, per trasmettere il pathos. Come quando si sposta dall’interno di un pullman, dove una studentessa velata chiede al proprio professore se la laicità sarà il futuro del paese, alla scena dei graffitisti che disegnano un murales a Jbel Jlud per un concerto di beneficenza, mentre lo sguardo assorto di un anziano accovacciato appoggiato alla parete li osserva, come se i suoi occhi affondino le radici nel passato della Tunisia, lo stesso che vede costruire il presente, verso un futuro ancora da decifrare. Poi l’immagine dal concerto si stacca, concentrandosi su fotogrammi paesaggistici di Jbel Jlud, per ritrovare Bayrem alla fine del suo viaggio, di nuovo su quella collina accanto a suo zio, continuando quel discorso cominciato all’inizio del film: “Mio padre è a Lampedusa”

“È lì da molto tempo?”
“Vorrei dirgli di ritornare”
“Lui troverà un lavoro ragazzo mio, guadagnerà soldi che t’invierà, per farti vivere e crescere meglio, avere un futuro diverso. La prossima volta che parli con lui, digli di non tornare …”
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