
Versione pdf uscita su Alias de Il Manifesto
Kabaria è un quartiere povero di Tunisi che si trova con l’omonimo nome al capolinea della metropolitana 1. È proprio in questo rione che finiscono le speranze del raro tunisino medio, mentre è qui che nasce la voglia di ribellione di una gioventù bruciata che cerca ininterrottamente di gridare la propria rabbia attraverso il rap. In queste vie nasce quel movimento unico che l’America è riuscita a coniare senza l’etichetta di “imperialista” e che riesce a esprimere meglio di ogni musica la sofferenza e l’ingiustizia di un sistema repressivo e autoritario come quello di Ben Ali. Uno dei rapper che ha avuto molto successo durante i primi giorni della rivoluzione del Gelsomino, El Général di Sfax, ha sfruttato questa caratteristica implicita del rap, anche se ultimamente il suo appeal musicale (… e politico) è decresciuto molto tra i tunisini dopo essersi schierato apertamente dalla parte del partito islamico de Al Nahda, un tradimento e un compromesso troppo spinto quello con il potere per chi vuole cantare le frustrazioni di una nazione. Quale è il confine tra un certo tipo di rap che vuole denunciare al mondo l’ingiustizia nel proprio paese e quello di stampo commerciale che approfitta di tutto il movimento per “fare la grana”?
Il contenitoreKabaria è rimasto chiuso e isolato dal resto della città, dalle influenze “commerciali”, e da quello pseudo sviluppo neocapitalista che Ben Ali aveva orchestrato insieme a qualche investitore straniero e che misura gli indici di crescita di un paese in base al benessere di una piccola minoranza, mentre al resto del paese non rimane altro che urlare la propria rabbia attraverso i pochi mezzi di cui dispone. Così hanno fatto Karim Menissi (30) e Khaled Bouhrizi (29) che sono amici sin dall’adolescenza, accomunati dall’amore e dalla passione per il rap, perché i beat ce l’hanno nel sangue … come la loro community, fatta di vecchi rapper come Slah (29) e Mustafa (31) e di giovani alle prime armi che sono sotto il loro mantello come i tre fratelli Sabry (20), Riadh (24) e Radhouan (27) Feddini che hanno formato il gruppo Dub Mel Kabba.

Per Riadh la situazione dopo la rivoluzione non è cambiata per nulla e neanche cambierà in futuro perché il sistema è corrotto alla radice ed è difficile spezzare questo legame profondo, per suo fratello Radhouan non riguarda solo la Tunisia e l’Egitto, ma tutta l’umanità: “… c’è una forza esterna che divide la società in classi e ceti, e che ha ridotto il potere del popolo. Purtroppo l’idea del neocapitalismo è insita dentro l’essere umano, ma l’uomo è nato libero, se vivesse più a uno stato naturale e semplice, non esisterebbero tutte queste disuguaglianze e si avrebbe la capacità di esprimere i propri pensieri e di abbattere le frontiere, perché siamo tutti figli dello stesso mondo”.
L’altra faccia del rap tunisino è incastrata nel quartiere poverissimo di Jbel Jlud, lì ci sono Jackou Wanksta, Kouki e Bilal del gruppo Flow Diggaz, poi la rapper Samya Mersani, Tiga Blakna e Paza Man che formano il gruppo Old 9 School. Anche loro cantano la disperazione del quartiere, la povertà, la disoccupazione, la droga e lo spaccio come unica alternativa. Jackou a luglio del 2011 ha vinto anche il concorso televisivo Urban Fen, indetto dalle nuove “leve del potere”, forse perché queste volevano ingraziarsi quella generazione di giovani che hanno messo a soqquadro il paese e alla berlina il vecchio dittatore. Urban Fen era una competizione di una trentina di ragazzi e ragazze; tutti si sono impegnati alacremente, tutti pensavano di respirare un’aria nuova, ma quando il vento della rivoluzione ha cambiato direzione, i direttori dell’emittente televisiva nazionale si sono ben guardati di pagare a Jackou i € 40000 del premio! Lui, come altri rapper, aveva in testa di mettere su una casa discografica, di affrancarsi dalla strada e iniziare una nuova vita aiutando i rapper più giovani, ma si è dovuto rendere conto che la realtà nel paese è come ha detto Radhouan sopra. È rimasto a Jbel Jlud, a cantare la rabbia dell’emarginazione e del quartiere soprannominato dell’ “immigrazione”. L’arringa di Tiga, che canta insieme a Samya e Paza Man in una fabbrica metallurgica abbandonata del quartiere, è incentrata invece sullo stato attuale della Tunisia in cui i Fratelli Musulmani, ma soprattutto i salafiti sbeffeggiano il paese: “Vivo normalmente, amo Dio, e la gente che gli obbedisce, ma non quelli che in suo nome si fanno crescere la barba, sono gli ipocriti, perché nascondono il loro gioco dietro la religione; amo la gente sincera, che ha una mentalità libera. Vorrei che la nuova generazione smetta di aver paura, perché la paura che comanda la gente. Siamo ancora guidati, ma perché? Dovremmo abbattere i muri che ci separano!”

Karim ha fatto concerti, videoclip, apparizioni in TV … in particolar modo subito dopo la rivoluzione del gennaio 2011, per poi essere abbandonato nel dimenticatoio insieme a tutto il movimento rapper tunisino dai media opportunistici che avevano bisogno della novità per mascherare il loro trasformismo di facciata.
Malek, Galaai, Campos, Blacko costituiscono il gruppo rap del nord della Tunisia, che canta le loro Resistenze (dal titolo del loro ultimo album) a Tunisi, come a Regueb, ma anche a Roma, al teatro Palazzo dove hanno suonato il 15 aprile per la commemorazione di Vittorio Arrigoni, portando la loro rabbia dalla Tunisia alla capitale romana, passando per un momento per Gaza, dove Vittorio aveva costruito la sua casa e un sogno che non era solo suo.
I rapper tunisini sono incazzati, perché esiste un problema di fondo che li attanaglia e non permette loro di poter investire sul proprio talento, né attraverso produttori locali né attraverso l’autoproduzione. Il loro problema si chiama hashish. Esiste una legge ereditata dal sistema autoritario di Ben Ali che punisce l’uso irrisorio e personale di fumo con la pena di un anno da scontare in prigione, € 2000 di ammenda (che in Tunisia corrisponde a più di un anno di stipendio) e l’inibizione a viaggiare all’estero per un periodo di 5 anni.

Khaled è uscito di prigione una settimana prima dell’anniversario della rivoluzione, dopo sei anni in cella: aveva appena 22 anni quando è stato arrestato. Il rap è stato un supporto per non diventare pazzo durante i giorni di prigionia e d’isolamento. Non c’erano libri, televisione, amici … solo un rumore martellante nella testa fatto di beat da imparare a memoria, per scaricare la propria rabbia e allontanare la solitudine. A poche celle di distanza c’era l’amico Karim, insieme componevano una canzone senza sapere che l’altro faceva lo stesso, una canzone per la Tunisia e per il futuro dei giovani, per quella rivoluzione che nel 2006 era ancora un sogno … “Solo tirando fuori il diavolo che è in me sono riuscito a sopravvivere!”, queste sono le parole di Karim che, quando uscito, ha continuato a cantare e comporre anche per Khaled.
È risaputo che nel movimento underground dei rapper fumare qualche canna è un momento sociale e soprattutto d’ispirazione. Nella maggior parte dei casi, l’hashish è parte integrante del rap e dell’ hip hop, eliminarlo sarebbe come togliere linfa agli stessi musicisti, come sarebbe stato per la Beat Generation senza alcol e droghe pesanti? Uno stato poliziesco non si pone il problema, l’unica soluzione è la punizione, mentre in un regime democratico la droga può rappresentare la manifestazione di un disagio, di una problematica molto più profonda che deve essere affrontata non con la repressione, ma con l’assistenza di personale qualificato e competente, tutti discorsi che forse in futuro la nuova Tunisia dovrà affrontare se vorrà intraprendere il cammino verso la democrazia.
“Khaled, come vedi la situazione politica in Tunisia per uno appena uscito di prigione?”

“Abbiamo fatto la rivoluzione per ottenere giustizia, ma dobbiamo avere pazienza e lasciare del tempo al governo per vedere cosa farà, anche se fino ad ora è stato di solo parole e niente fatti. Siamo vigili e in grado di fare un’altra rivoluzione nel caso il governo deragli dai binari, non ci siamo addormentati di nuovo”. Lo sguardo di Khaled a volte sembra come smarrito, racchiuso dentro una nostalgia e una tristezza lontane che ricordano quello dei palestinesi, di chi conosce la sofferenza di essere rinchiuso.
“Quando hai iniziato a essere interessato al Rap?”
“Ho iniziato fin da piccolo, nel 1995, ma solo nel 2000 ho iniziato a registrare professionalmente. A quel tempo non c’erano spazi e possibilità per cantare a Tunisi, quindi facevo i miei concerti nelle università. Cantavo inni contro il governo di Ben Ali, per questo mi hanno sbattuto in prigione nel 2006, sono uscito a gennaio di quest’anno e ho appena iniziato di nuovo a cantare. Spero che ci sia un futuro migliore per me, per i nostri figli e per tutta la Tunisia”
“Come è la risposta da parte del pubblico?”
“Non posso dirti cosa valgo, sono le persone che devono giudicarmi, lo devi domandare a loro, non a me. Il primo concerto che ho fatto a Zafir, nella zona della Marsa, la gente era entusiasta e stupita”
“Stai registrando qualcosa in questi giorni?”
“Ho scritto molte canzoni in prigione con le mie lacrime, ora che sono uscito non vedo il momento di poterle cantare davanti a un pubblico. Sto registrando un nuovo album per la mia famiglia e per il mio quartiere, Kabbarayya”

“Lavori anche con altri artisti?”
“Normalmente lavoro da solo, ma a Kabbarayya siamo una grande famiglia di 100-150 rapper, io rappresento una specie di “Padrino” ormai per molti di loro. Ognuno lavora da solo, ma spesso per i concerti collaboriamo insieme”
“Come vedi la Primavera Araba in generale? E in Tunisia?”
“Con un buon spirito e mentalità aperta tutti insieme possiamo prendere la strada giusta, ma se non facciamo le cose come dovrebbero essere fatte, rischiamo di esplodere e tornare 100 anni indietro”. Mentre parliamo c’è una manifestazione nella via principale Bourguiba, i manifestanti vengono attaccati dai poliziotti, è un fuggi-fuggi isterico mentre noi rimaniamo seduti al tavolino del bar. “La polizia non sa gestire la situazione come dovrebbe, questo è l’esempio di quello che dicevo prima”, nel giro di una frazione il caos e il panico momentaneo si fermano e tutto torna all’apparente normalità. Una ragazza con i capelli sciolti tiene un cartello con su scritto “Abbiamo il diritto di vivere!”, una sua coetanea un altro che dice: “Abbiamo il diritto di manifestare”
“Quali sono i fattori che possono spingere il paese a tornare indietro di 100 anno?”
“La rivoluzione è stata contro la dittatura; ora a chi è al potere piace fare le cose sotto banco, gli piace amministrare il paese ma colpisce a bastonate i giovani e poi dice che sono dalla parte della giustizia. Noi siamo a favore dei dimostranti per avere una vita decente in Tunisia. Abbiamo cambiato una dittatura con un’altra, l’unica differenza sono i mezzi che vengono usati. Se lasciamo che quest’altra dittatura si stabilisca definitivamente nei posti di comando, allora c’è il pericolo di tornare indietro di 100 anni!”
“Come vedi il partito degli islamici El Nahda e soprattutto il movimento dei salafiti che non esisteva per niente in Tunisia?”
“El Nahda collabora con i salafiti. Quelli del Nahda hanno preso il potere e quando vedono i salafiti usare la violenza, li lasciano fare. Quest’ultimi si muovono in silenzio, se non reagiamo in tempo e li lasciamo fare, nel lungo termine faranno la rivoluzione alla loro maniera”
“Karim, anche tu ti consideri il padrino dei rapper in Tunisia?”

“In un certo modo sì. Nel 1998 ho creato Mascot, uno dei primi gruppi rap in Tunisia; dopo ho formato Armada insieme a Khaled (sopranominato Mr Kaz) e Slah; poi mi hanno sbattuto in prigione per aver fumato hashish, più altri due mesi perché avevo insultato il giudice. Sono uscito per sei mesi ma mi hanno rimesso in cella per altri due anni perché ero veramente dipendente del fumo. Quando sono uscito mi sono trovato a pagare 8000 dinari di debiti allo Stato. Oggi possiedo un mio studio di registrazione, ma come faccio a investire sui giovani se poi li sbattono in galera per una sciocchezza? Così faccio la mia musica da solo, scrivo da solo, canto da solo … e morirò da solo!”, Karim scoppia in una fragorosa risata, per stemperare la rabbia dovuta alla stagnante situazione tunisina che scontenta lui e la maggior parte dei giovani tunisini, perché molti si sentono traditi, ai loro occhi molti coetanei sono morti inutilmente.
“Registri anche film nel tuo studio?”
“In un certo modo. Come ha detto David Copperfield: “A quello che possiamo vedere e sentire, ci possiamo credere”, quindi il sound non basta, abbiamo superato questo stadio, vogliamo che il mondo intero guardi la vera immagine della Tunisia”
“Parlami delle tue canzoni, quali preferisci?”
“La mia preferita si chiama “Una lacrima”, l’ho scritta quando ero in prigione: “Lacrima dopo lacrima sto morendo, in un posto che non ho scelto, mi hanno trascinato in questo posto, non voglio morire qui, sono un essere umano, aiutatemi per favore, sono un essere umano …”. Un’altra canzone s’intitola Ribelle: “Ho sofferto, ho pianto, ho perso il mio sangue, ma non perderò mai il mio orgoglio e sarò ribelle fino in fondo …”. In prigione ci facevano l’elettroshock, ci umiliavano, ci lasciavano in isolamento, ci mettevano in 400 dentro uno spazio di 15 mq … parlano di Guantanamo perché non hanno visto le prigioni in Tunisia!”, ride di nuovo Karim, forse perché sorridere è per lui l’unico modo per affrontare i ricordi.
“Quale è la speciale relazione che hai con Khaled”

“Sono stato il primo ad ascoltarlo anni fa, abbiamo cantato insieme nel gruppo Armada, e siamo finiti in prigione perché eravamo coinvolti nella stessa faccenda”
“Quindi l’esperienza in carcere ha rafforzato la vostra amicizia e intesa?”
“Sì. Quando ci hanno buttato in prigione, credevano di annientarci, ma invece ci hanno reso più forti, più uniti”
“Come vedi la rivoluzione?”
“La fiducia nella rivoluzione sta diminuendo, perché questo governo fino ad ora non ha fatto nulla, solo Parole, parole … parole”, Karim parla un ottimo italiano e intona la rima della canzone di Mina del 1972. “Non mi aspetto nulla da questo governo perché è una causa persa perché colui che s’impadronisce di una poltrona diventa l’incarnazione del diavolo, questo è quello che ci ha insegnato la storia”
“Per i giovani egiziani la loro rivoluzione è Mustamirra, cioè continua, e sono agguerriti e combattano con i militari, non c’è un nocciolo duro anche qui in Tunisia?”
“Gli Shabeb egiziani combattono contro un nemico, l’esercito, qui abbiamo un governo eletto che non ci fa male con le pistole, ma non facendo il suo lavoro, in questo modo ha ucciso la nostra speranza. Siamo un popolo pacifico e la gente non vuole complicazioni, vuole delle soluzioni, vogliamo soltanto mangiare e avere un futuro”
La situazione in Tunisia lascia scontenti la maggior parte dei giovani. Jackou, Kouki, Slah, Mustafa, Tiga … Khaled e Karim continuano per la loro strada, cantano con il loro freestyle le loro angosce e preoccupazioni, cantano il malcontento dei loro coetanei, urlano in faccia la realtà che scorre giornalmente davanti ai loro occhi: nei bar, nelle Avenue lasciate dai francesi, nelle case degli amici, sulle rive del mare o dentro il tram … l’urlo risuona per una Primavera Araba che deve ancora capire dove sta andando e quale cammino dovrà intraprendere nei prossimi anni per non ritornare ancora più indietro rispetto a dove era partita. Il freestyle è la faccia sociale del rap, del coinvolgimento tra ragazzi, dove ognuno può intervenire con il suo ritmo personale di beat; in questi momenti non esistono distinzioni di classe o di quartiere, e ognuno proviene da un unico posto, la strada, quello dove nasce il vero rap.
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