Rivoluzione egiziana e Neo-socialismo


Piazza Tahrir febbraio 2011

11 febbraio 2011, dopo 18 giorni di presidio e lotta contro le forze del regime, alla fine gli egiziani sono riusciti ad avere la meglio e raggiungere il loro obiettivo principale: la caduta del rais. A tre mesi da quel giorno la situazione in Egitto è stagnate.

Come rimarcato da molti giornali e analisti, la forza del movimento in piazza è stato quello di non avere un leader e, allo stesso tempo, è stato un limite che si sta ripercuotendo nel medio periodo. La domanda della piazza era che Mubarak si dimettesse, ma non proponeva e non aveva un programma alternativo per il dopo. Quindi i maggiori limiti sono stati la mancanza di organizzazione una volta caduto il regime, e la mancanza di un programma che coinvolgesse i cittadini allo stesso modo in cui li aveva coinvolti nelle proteste.

Viene chiamata rivoluzione, ma forse sarebbe meglio apostrofarla protesta (giusta, per chiedere il rispetto dei diritti civili e il miglioramento economico, perché molte famiglie riescono a malapena a raggiungere un decente sostentamento alimentare (per questo motivo è stata nominata la rivolta del pane). Non è stata una rivoluzione nel senso classico come si era abituati a vedere durante il XX secolo per le rivoluzioni comuniste.

Non c’era un’ideologia dietro la protesta rivoluzionaria egiziana, ma una denuncia dei soprusi del regime e l’insoddisfazione verso forme di oppressione sia palesi che segrete. C’era come obiettivo il conseguimento di un sistema democratico. Questo fine assume ora dei contorni sfocati perché non si capiscono quali sono i soggetti che dovrebbero traghettare questa transizione verso la democrazia (per alcuni versi si guarda ai sistemi europei perché agli occhi degli egiziani in Europa sembra funzionare tutto, mentre spesso sfugge non è proprio così). L’esercito ha assunto un ruolo indipendente e di controllo della situazione attuale. Interviene solamente quando la situazione sfugge di mano ala polizia (caso del recente attacco alla chiesa copta di Embeba del 8 maggio 2011); per il resto cerca di avere una posizione secondaria per rimanere agli occhi degli egiziani super partes.

Church burned in Cairo
Chiesa bruciata al Cairo - Church burned in Cairo

Molta gente si lamenta ora che in Egitto non esiste sicurezza come c’era prima, maggiormente la classe benestante, ma anche quella meno abbiente. C’è molta più criminalità di prima, ma questa è l’altra faccia della democrazia, con tutti i suoi limiti. Il sistema democratico può portare ricchezza e una sua equa redistribuzione (o per lo meno questo è lo scopo che si prefigge), ma allo stesso tempo porta anche una equa redistribuzione della criminalità nel territorio se l’intervento dello stato diminuisce sensibilmente. L’Egitto di Mubarak era statisticamente uno degli stati più sicuri al mondo; questo significava un regime semi-poliziesco e la limitazione di molte libertà, con un sistema politico quasi uni-partitico (gli altri piccoli partiti erano quasi solo di facciata), e il costante abuso da parte della polizia dei poteri dei quali veniva delegata. Con la democrazia invece, si liberano delle energie sopite e soffocate con la forza che possono sfociare in micro criminalità.

Il pathos che era presente a Tahrir si è andato a poco a poco affievolendo di fronte alle difficoltà giornaliere. I turisti sono diminuiti drasticamente, se non prossimi allo zero (per il PIL egiziano costituiscono un quarto delle entrate nazionali), di conseguenza si sono ridotti tutti gli introiti anche per l’indotto, a discapito di tutte quelle persone che ne beneficiano: dai tassisti ai conducenti di autobus, dalle pensioni agli hotel a cinque stelle, dai negozi di souvenir ai semplici negozi di vestiario, dai ristoranti alle scuole di arabo per stranieri … Alla contrazione delle entrate non ha coinciso una contrazione dei prezzi, anzi, quest’ultimi sono aumentati per il caro petrolio e l’inflazione mondiale dovuta al fatto che l’Egitto importa più di quanto produce. Le spese degli egiziani si sono ridotte e ogni giorno diventa più difficile andare avanti.

Tahrir. Febbraio 2011
Tahrir. Febbraio 2011

L’instabilità politica dovuta alla mancanza di certezze per il futuro, riduce sensibilmente gli investimenti stranieri (non solo occidentali). L’esperienza della pseudo rivoluzione del ’52 mette paura ai mercati: in quel frangente l’allora presidente Nasser incominciò una politica di nazionalizzazione sulla falsariga del sistema sovietico; oggi quello che spaventa gli azionisti sono il gruppo di salafisti e i Fratelli Musulmani, sebbene questi, seppur avendo teoricamente una supposta maggioranza relativa nel paese, presentano fratture al loro interno tra le diverse correnti che non garantiscono la loro piena vittoria nelle future elezioni generali.

Lo stato di incertezza politica ed economica sta incominciando a diventare frustrante per gli egiziani i quali incominciano ad avere una pseudo nostalgia del sistema di Mubarak. Questo si ricollega alla mancanza di programmazione menzionata sopra, o alla mancanza di un leader che presenti un’alternativa valida e che abbia un’idea, o una via da seguire, che amalgami parte dell’elettorato, in modo da continuare a tenere viva la spinta rivoluzionaria dei giorni delle proteste in piazza.

Esercito in strada al Cairo. Febbraio 2011

Analizzando il concetto classico di rivoluzione, appena la lotta armata ha termine, quell’energia che era alla base della lotta stessa va convogliata verso il cambiamento che si voleva ottenere, cercando di far perdurare lo spirito iniziale della rivoluzione. Spesso veniva e viene etichettata come “processo della rivoluzione permanente”, la quale consiste in mesi o anni in cui il processo riformatore continua imperterrito proprio per non perdere lo slancio emotivo e il coinvolgimento della popolazione. Qui in Egitto si è assistito alla discesa in campo dell’esercito, non come soggetto nuovo (lo stesso Mubarak proveniva dalle sue file), ma quale soggetto incaricato di ristabilire un ordine non tanto diverso da quello precedente, sebbene abbia dichiarato di voler appoggiare il processo democratico nel paese. Ha messo in galera alcuni ministri del regime passato che, come Mubarak, erano in carica da circa 30 anni, ha avviato un’azione giudiziaria nei confronti di Mubarak e la sua famiglia. Però esiste il dubbio che tutte queste azioni possano essere solo di facciata, per calmare la piazza, mentre dietro le quinte non si fa nulla per cambiare la struttura dello stato e il sistema normativo vigente. Per questo gli shabeb (i giovani) chiedevano elezioni immediate dopo le dimissioni del rais, qualunque sarebbe stato il risultato, avrebbero portato a un vero cambiamento perché sarebbe iniziato un dibattito politico costruttivo che avrebbe coinvolto tutti gli strati della società. C’è da puntualizzare che molti partiti non sarebbero stati pronti alle elezioni, sia perché ridotti a partiti fantoccio da Mubarak, sia perché effettivamente la maggior parte non hanno una diffusione capillare in tutto il territorio nazionale. Questa è stata la scusa dell’esercito, appoggiata a sua volta proprio da quei partiti che sarebbero stati impreparati alle elezioni immediate. Inoltre tutti i partiti politici sono stati impreparati dalla rivoluzione del 25 gennaio: sia il Ghad che il Tugammau, sia il Wafd che i Fratelli Musulmani … non si aspettavano che la rivoluzione avrebbe potuto avere successo.

Copti protestano davanti alla TV egiziana. Maggio 2011
Copti protestano davanti alla TV egiziana. Maggio 2011

Da tutta questa situazione chi sembra perderci sono soprattutto i cittadini che più di tutti pagano le conseguenze dell’instabilità politica ed economica. Anche i recenti scontri tra cristiani e musulmani sono visti da molti come un sintomo di instabilità creati ad hoc per generare tensioni e insicurezza in tutto il paese. Razaq, un semplice allenatore dentro la palestra dell’Aguza (un quartiere del Cairo), guardando la chiesa bruciata di Embeba in TV, afferma che sono tutte mosse per destabilizzare il sistema messe in atto da chi è contro la rivoluzione. Secondo lui sono gli stessi ministri dell’era Mubarak, ora in prigione, che chiamando con il telefonino dalla loro cella istruiscono i loro contatti fuori per fomentare attriti nella popolazione e creare un senso d’insicurezza. La domanda è la seguente: se un semplice allenatore di palestra può supporre qualcosa del genere, quanto può essere lontano dalla verità? Anche se può essere vero il contrario, può anche voler dire che ci sono voci, o chiacchiere che circolano tra le persone intorno a quello che sta succedendo veramente dietro le quinte della politica egiziana. Tale tattica ricorda i mafiosi italiani che, pur essendo in prigione, riescono a comunicare con l’esterno e mantenere immutato il loro potere nel territorio tramite pizzetti e passaparola.

Si è a un punto cruciale dell’evolversi della situazione in Egitto, dai prossimi mesi e anche nelle prossime elezioni si capirà se la rivoluzione egiziana del 25 gennaio sia stata una Primavera di Praga come nel 1968 o la caduta del Muro di Berlino come nel 1989. Bisognerà vedere se l’esercito, il quale possiede molti, troppi interessi nel paese, sarà capace di circoscrivere il suo ruolo. Questo è l’interrogativo principale per capire quanto successo potrà avere la rivoluzione egiziana.

C’è da chiarire un altro aspetto delle rivoluzioni arabe. Molti giornalisti europei e occidentali indicano il mondo arabo come un esempio da seguire perché ha avuto la forza e il coraggio di ribellarsi ai propri regimi dittatoriali, adducendo che si dovrebbe fare lo stesso con alcuni governi europei, tra tutti quello italiano e francese di Berlusconi e Sarkozy dove il potere populista sta schiacciando le libertà democratiche. Se da una parte può essere vero, in quanto le rivoluzione arabe ricordano che non bisogna mai abbassare la guardia, soprattutto di questi tempi, c’è da aggiungere che l’Europa ha il vantaggio di provenire da più di 200 anni di sviluppo democratico se si parte dalla rivoluzione francese, o da 350 se si considera la repubblica di Cromwell in Inghilterra. È vero che questo non ha evitato che potessero nascere regimi quali quelli di Mussolini e Hitler. L’Europa è abituata ad avere una libera dialettica democratica e lotte politiche, o rivoluzioni. Il mondo arabo è stato talmente soppresso negli ultimi decenni che non vi erano permesse neanche le elementari forme di libertà politiche: opinione, aggregazione, sciopero, libera espressione … Indubbiamente le rivoluzioni arabe sono un monito, per non abbandonarsi a un nuovo autoritarismo che sembra riemergere in Europa.

Il Manifesto di Marx e Engels del 1848

Negli ultimi trent’anni le politiche dei paesi europei, sono state incentrate verso concetti troppo neo-capitalisti, che hanno portato ricchezza solo a pochi e hanno eroso la coesione e il tessuto sociale. C’è bisogno di un maggiore bilanciamento e riequilibrio per non staccarsi dai principi democratici sui quali è sorta l’Europa del dopoguerra. Da qui lancerei un monito personale: investire oltre che sul capitale economico, anche su quello umano e culturale, perché una nazione, o un continente, senza cultura è un paese destinato al declino morale, economico e politico. Forse per combattere la visione oltranzista del neo-liberalismo, o neo-capitalismo, c’è bisogno che un nuovo Manifesto come quello del 1848, sia redatto, per agglomerare quelle energie democratiche, progressiste, ecologiche, liberali … che puntano alla costruzione di un futuro per le nuove generazioni e non al suo annientamento o a una visione incentrata solo sul presente. Una chiamata in campo di tutte quelle energie politiche, sociali, economiche, culturali … per la creazione di un neo-socialismo capace di affrontare le sfide del nuovo secolo.

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