
Era il 2003 quando Tamer El Said accettò l’offerta di girare un documentario sulle carceri di tortura in Marocco: un sistema studiato a tavolino per togliere di mezzo, in tutti i sensi, i vari supposti oppositori politici; un sistema che ricalca il maccartismo americano degli anni ’50 ancora più estremo, un prototipo di quello che saranno le carceri di Guantamano e Abu Ghraib. Le prigioni sono sparse su tutto il territorio marocchino, come nella regione di Makoona e di Akdaz. Persone rapite in strada e trasportate in centri di detenzione con un unico obiettivo: tortura e morte. Gli intervistati ancora si domandano perché? Per quali motivi furono sequestrati a metà degli anni ’70 e liberati solo dopo nove anni nel 1984? Chi era la mente che ha concepito l’arresto? Domande alle quali lo stato marocchino preferisce non rispondere. Il documentario pone tanti quesiti, l’inchiesta spiega come mai molti stati del Medio Oriente temono il contagio della rivoluzione egiziana e tunisina: gli attuali regnanti si troverebbero ad affrontare un giudizio come quello che sta subendo l’ex rais Hosni Mubarak, e tutti quelli che avevano collaborato con il suo regime.

El Said incentra il suo lavoro sul sociale, osserva la società in cui vive e la riversa sulla pellicola. Insieme a Ibrahim El Batout e molti altri, stanno muovendo i binari del cinema egiziano verso lo splendore del secolo passato, quando il neo-realismo degli anni ’40 valicava i confini del Mediterraneo per approdare nella terra dei faraoni, influenzando i lavori di Salah Abu Seif , Tawfiq Salah e Youssef Chaine. Tamer El Said si è cimentato in vari cortometraggi già negli anni ’90, con il corto “Un lunedì” nel 2004 ha partecipato a molti festival (Aspen Short Film, Zurich Arab Cinema, Fifth Rottherdam Arab Film) aggiudicandosi il premio quale miglior corto in quello de Il Cairo. Il film sviscera il mondo solitario e piatto di una coppia di cinquantenni egiziani che decidono di sposarsi. Sebbene appagati, la moglie si domanda perché non si sente completamente soddisfatta della relazione, solo attraverso l’esercizio di ricordarsi a fischiare come faceva da piccola, le scatta la molla della seduzione che stupisce persino il marito e le permette di arrivare all’appagamento di un piacere non solo carnale. C’è poesia nel film, e l’argomento del sesso è velato dal racconto dei due protagonisti, che nel panorama mediorientale rimane pur sempre un tabù.
“Può dirci di più sui suoi precedenti lavori: Music of the Nets, Crisscross, Like a farther, Charlie e 18 Settembre?”
“Sono i miei primi lavori, dove ricercavo il mio stile e la strada per esprimermi nel cinema e trovare il mio linguaggio cinematografico. “Crisscross” è un corto che ha aiutato molto ad affinare la mia abilità filmica. È la storia di due donne, una che si avvicina ai 30 anni e l’altra ai 40; non si conoscono, appartengono a classi sociali diverse e solo apparentemente non hanno niente in comune. S’incontrano casualmente più volte nello stesso giorno, in diversi posti, senza mai parlare. È una metafora di quanto si può essere vicini fisicamente in una megalopoli come il Cairo, ma allo stesso non riuscire a conoscersi”
“Perché in “On a Monday”, si è concentrato sulla relazione di una coppia anziana e sull’appagamento sessuale della donna?”
“Quando si gira un film, si deve trovare qualcosa che veramente ispiri, che pensi valga la pena di trasmettere agli altri. È una sfida artistica che cerco. Narrare la stessa storia da punti di vista differenti, dove non esiste una verità assoluta. La protagonista si sforza tutto il giorno di riuscire a fischiare come i venditori ambulanti fanno nelle strade de Il Cairo, i quali sembrano così innocenti e appagati dalla loro vita così semplice. Il film è incentrato su un avvenimento vissuto dalla coppia dentro le mura di casa: il fischio assordante che lei riesce finalmente a produrre davanti allo specchio del bagno dopo tanti tentativi mentre il marito è in salone intento a preparare la sua pipa da fumare. Fischiare a quel modo, per la protagonista è qualcosa che libera la sua energia interiore. Sono convinto che il 90% dei problemi in Egitto si potrebbero risolvere se risolvessimo quelli della donna, estirpando quel blocco che le imprimono le radici sociali e culturali della società”

“Quale è stata l’esigenza di girare il documentario “Take me”? Ha scavato nel passato, che cosa cercava?”
“Il progetto mi è stato proposto da Hassan Taha, giornalista e produttore di Al Jezeera: fare un film sui diritti umani in Marocco.
Quando avevo 19 anni fui imprigionato per sei settimane perché partecipai a un sit-in nel piazzale dell’università. Un’esperienza tragica che non dimenticherò mai: mi lasciavano nudo in pieno gennaio, gettandomi acqua gelida e sporca addosso; ebbi la febbre a più di 40 e mi lasciarono senza medicine; mi percossero e mi torturarono. So cosa significa tortura e che impatto ha sul resto della propria vita, se si è in grado di superarla, di lavare la propria anima e di cercare un lato positivo, si riesce a rinascere. Quando ho girato “Take me”, ho rivissuto quell’esperienza, sebbene quella dei protagonisti non ha paragoni: 9 anni della loro vita in cella d’isolamento, senza parlare con nessuno, sistematicamente torturati a turno ogni mattina …”. Nel film, nella testimonianza di una delle vittime c’è una frase che colpisce: “Non erano le percosse o la solitudine che mi facevano paura, ma vedere gli altri prigionieri diventare pelle e ossa, e vederli morire a poco a poco: uno specchio di se stessi”. Tamer continua il suo racconto. “Sono tuttora stupito di come siano riusciti a superare quel trauma ed andare avanti dopo esser sopravvissuti. Il mio scopo era imprimere la loro storia nella pellicola per non dimenticare dove può arrivare la follia umana”
“Quale è stata la parte più difficile del film? Quale relazione con l’Egitto?”
“È stata una sfida artistica ancora più grande rispetto a “On a Monday”. Quando si gira un documentario, diversamente da un film, si deve minimizzare al massimo il proprio ego di regista, lasciare agli intervistati il loro spazio e tempo, stare attenti a non mettere in soggezione la persona: non ci sono battute o copioni da seguire. La linea di confine tra raccontare la storia di qualcuno, rispettandolo e non farlo diventare una vittima, è molto sottile. Per me non sono vittime, ma persone coraggiose che hanno affrontato una situazione umanamente tragica.

Non è riferito solamente all’Egitto, ma anche a tutti gli altri paesi arabi: Libia, Siria, Yemen … Per questo all’inizio del film ho menzionato una poetessa egiziana, Amal Donkol: “Se non fosse per questo muro, non capiremmo il valore di un raggio di sole”. Quanto il mondo può essere piccolo quando l’alba è sempre oscurata da un muro? Come ci si comporterebbe in tal caso? Si spenderebbe il resto della propria vita cercando di fare un buco per riuscire a vedere ancora una volta il sole?”
“Girando “Take me”, che cosa ha imparato da un punto di vista umano e cinematografico?”
“Il film ha totalmente cambiato la mia vita. Se si guarda a El Malawi, uno dei prigionieri, una volta uscito di prigione, si è messo a lavorare come autista di camion, guidando da un lato all’altro del paese, perché non poteva più sopportare i muri. Non avevo bisogno di mostrare persone uccise o la barbarie della tortura, per me era più importante rendere l’idea di cosa significasse non poter guardare la propria faccia in uno specchio per nove anni, non poter andare al bagno se non una sola volta al giorno e solo in presenza di una guardia … queste per me erano torture ancora più tremende delle vere percosse o ferite, perché era l’uomo interiore che veniva annientato”. Un altro episodio molto toccante, è l’esperienza di El Nadarany che, pur di rimanere in qualche modo umano, s’ingegna per costruire un pennello rudimentale e dipingere figure sulle pareti o sul pavimento usando acqua e polvere di caffè turco: creava i suoi personaggi per avere dei compagni con cui parlare, per ricordarsi di essere uomo.
“Sotto l’aspetto cinematografico, ho appreso la differenza tra girare un film o un documentario. Nel primo caso è come essere contadini, ci si prende cura delle piante ogni giorno: la semina, l’irrigazione a una certa ora del giorno, la potatura … è un lavoro continuo con uno schema molto rigido; come per una pianta si vede crescere il film davanti agli occhi. Nel secondo caso è come essere pescatori: si getta la rete e si segue il cuore; se non si crede in cosa si sta facendo non si ottiene il risultato sperato. Quando si gira un film, si fa in modo che sia il film a seguirti, in un documentario è il contrario”
“Come classifica il suo ultimo film “The last day of the city”? Chi è il protagonista Khaled?”
“È un ibrido con una parte documentaristica riferita a un incendio accaduto realmente nel teatro di Beni Suef nell’Alto Egitto, in cui persero la vita circa 60 artisti e colleghi. Khaled è una versione di me, il film è parzialmente autobiografico”
“Quando parla del feeling della città, lancia una frase a metà: “C’è qualcosa che non riesco a catturare a percepire nell’aria”, a cosa si riferisce?”

“Il film narra la speciale relazione tra la gente e le città, del centro del Cairo dove ho sempre vissuto insieme alla mia famiglia. Parla di un uomo, Khaled che si avvicina ai 35 anni mentre la donna che ha amato fino quel momento è in procinto di lasciare il paese per sempre. Il protagonista si trova ad affrontare diverse difficoltà: l’incapacità di terminare un film anche avendo filmato la città per anni; la malattia della madre, la morte del padre e, in ultimo lo sfratto di tre mesi. Khaled osserva la città che cambia ogni giorno prendendo direzioni che non gli piacciono, ma allo stesso tempo dipinge un ritratto de Il Cairo in ogni suo lineamento, profilo, vicolo e angolo nascosto, nella moltitudine delle persone che lo compongono”
“Il traffico, le grida dei rivenditori ambulanti, il rumore costante … che significano per Tamer El Said? Che cosa è Il Cairo?”
“È la città delle contraddizioni: la si ama e la si odia, è una città ispiratrice ma rigida. Il film vuole cogliere i sentimenti delle persone che cercano di catturare il senso nostalgico della loro vita quotidiana nella città, e come questo abbia un impatto su di loro. Il Cairo è una città vitale, reale, cruda, piena d’amore e d’odio, tutto è così intenso. La relazione con la città è come quella con una donna: ti rifiuta, scappa, sembra indifferente, poi invece ammicca un sorriso, e tu sei lì ai suoi piedi”
“Nel film si parla di Beirut e Baghdad, c’è un collegamento con altre città?”
“All’inizio del film Khaled riceve una visita di tre amici registi, uno libanese, uno iracheno da Baghdad e un altro esiliato a Berlino. Inizia una collaborazione, ognuno gli manda le sensazioni che ha della propria città attraverso pezzi filmati del posto in cui vivono. Alla fine c’è un legame nascosto tra queste metropoli e tra gli arabi che le vivono”
“Pensa che in qualche modo, insieme ad altri registi si stia ricostruendo in Egitto un nuovo cinema?”
“Non saprei, fino ad ora non esiste un vero e proprio movimento cinematografico. Ci sono singoli, come me e Ibrahim El Batout, che cercano di esprimere il loro concetto di cinema in maniera indipendente, ma non creano un’onda che cambia il panorama. Uno dei maggiori problemi in Egitto è che il cinema costituisce la più grande industria del mondo arabo, che domina la scena principale senza dare spazio a nuovi movimenti. Essere un regista indipendente in Egitto, è molto differente che esserlo in Libano, Marocco, Siria … dove i registi non devono lottare con un’industria così potente. Qui in Egitto non esiste una piattaforma alternativa su cui possiamo lavorare, ognuno cerca una propria strada purtroppo separatamente. Inoltre il cinema è stato usato dal vecchio regime come uno strumento per fare il lavaggio del cervello dei cittadini, abbassandone di molto il livello e la qualità”
“Come è il modo di lavorare di Tamer El Said?”
“Sono molto ancorato al vecchio concetto di cinema: scrivere la sceneggiatura, le battute, disegnare gli stage … cercare di renderlo il più perfetto possibile. Questo modo di vedere le cose può rivelarsi una prigione, così ho cercato di limare la mia rigidità.
In “Last day of the city”, ho deciso di lavorare a salti, senza avere una conoscenza dettagliata del luogo dove si svolgeva la scena, lasciando molto all’interpretazione e all’ispirazione del momento. Girare un film è qualcosa che per quanto programmata, non sarà mai come era stata scritta … il mio ruolo di regista qui è stato pescatore per il 60%, e contadino per il 40%. Intenzionalmente avevo scritto la sceneggiatura per sommi capi, cercando l’ispirazione sul set, nelle diverse fasi di lavoro è cambiata radicalmente dalla bozza iniziale. Sono sempre stato attratto dall’idea di andare in un posto e carpire le sensazioni che mi dava per poterle imprimere sulla pellicola. Ho avuto il bisogno di sentirmi smarrito per un istante nei luoghi prescelti, per riuscire a catturare quella sensazione impercettibile che può fare la differenza nel film. Ho avuto la fortuna di avere molti collaboratori, tra cui amici registi, che mi hanno coadiuvato. Ognuno aveva la mente aperta e pronta per ricevere quello che Il Cairo ci avrebbe dato, perché la città è piena di storie da raccontare e inserire dentro la linea del film; è un processo vivo e variabile, organico che gioca un ruolo fondamentale”
“Come vede la rivoluzione? Cambierà il suo modo di fare cinema?”

“Come è stato per “Last days of the city”, la rivoluzione è un cantiere in pieno “lavori in corso”. Credo che il processo rivoluzionario sia in me dal primo giorno che ho iniziato a lavorare come regista. Sì, penso che la rivoluzione darà una grande spinta in avanti al mio lavoro.
Ora siamo a un punto critico in cui dobbiamo provare a noi egiziani, che siamo capaci di portare a termine questa rivoluzione in modo da cambiare il vecchio regime con un nuovo sistema, che sia più giusto e democratico. Ogni egiziano ha la responsabilità di essere attivo e di proteggere quello che abbiamo iniziato, altrimenti saremo perduti”
“Vede un cambiamento nei comportamenti e nei volti delle persone de Il Cairo?”
“Il processo post-rivoluzionario è molto critico, perché il prezzo da pagare è molto alto, e forse è giusto che sia così. Il Cairo oggigiorno è più difficile, duro, crudo, però è anche pieno di speranza sebbene le persone siano senza lavoro e con pochi soldi. Ma per cambiare un sistema che ha governato per 30 anni, c’è bisogno di tempo e di sacrificio. Quando nel passato la partecipazione alle manifestazioni era di appena 200/300 persone, sconsolati ci dicevamo quanto fosse esiguo il numero dei manifestanti; oggi, che siamo in 200000 mila diciamo che siamo ancora pochi, invece è un cambiamento radicale! Questa è la nostra missione ora: cambiare noi stessi, come persone, la nostra mentalità, perché la gente è il vero tesoro di ogni paese sul quale puntare”
[…] Articoli sull’Egitto febbraio 5, 2011 Vincenzo Mattei Lascia un commento Passa ai commenti Alias Il Manifesto: director Tamer El Said (11 Feb 2012) […]
Di questo soggetto ne ho parlato con un giovane ventenne marocchino, conosciuto al bar Garibaldi del paese, lui mi ha detto di non saperne nulla dei comunisti imprigionati in Marocco
Non ho menzionato “prigioni comuniste”, forse si è confuso leggendo di “maccartismo”?.
[…] Regista Tamer El Said (11-02-2012) […]